"Nel Cuore della Chiesa"

N. 2/2009

 Editoriale

 La chiave di Teresa  

RIVISTA N. 2/2009 (PDF)      

 

Inoltrarsi nei sentieri della Vida di santa Teresa di Gesù, apre gli occhi su quella realtà complessa e contraddittoria che è l'animo umano, indagato con finezza psicologica e spirituale da una donna capace di aiutarci a «scendere nelle profondità del nostro essere», di guidarci «nella strada dell'umile e coraggioso conoscimento di noi stessi» (p. Saverio Cannistrà).

Nel suo procedere, il racconto della Vida si definirà come storia di una contraddizione risolta, di una soluzione che non si presenta, tanto, come esito di una ricerca personale, quanto, come rivelazione e incontro con un Dio di Grazia e di Misericordia, riconosciuto nell'immagine del «Cristo coperto di piaghe» (V 9,1).

Qui, «ai suoi piedi» la storia personale della Carmelitana subisce la svolta decisiva; la premessa dichiarata da Teresa è l'avere smesso di confidare in se stessa: «Io allora diffidavo molto di me e mettevo ogni fiducia in Dio» (V 9,3). Quella premessa era stata annunciata con un' affermazione che ha l'acutezza di una intuizione profonda e la sicurezza di una diagnosi nata dall'esperienza: «Ecco qui il nostro errore: non voler rimetterci in tutto nelle mani dì Dio» (V 6,5).

Teresa scriveva queste parole riferendosi al suo penoso stato di salute, ma la considerazione varrà, poco dopo, anche in riferimento al suo dissidio interiore, per il quale afferma: «Cercavo rimedi, usavo ogni diligenza, ma non riuscivo a persuadermi che ben poco si fa se non deponiamo ogni fiducia di noi stessi per riporla tutta nel Signore» (V 8,12).

La fiducia, diventa la chiave di volta teologica dell'esistenza di Teresa, segnata da un doloroso enpasse durato circa vent'anni, alla cui radice sta un insidioso moralismo, che lei chiama «pretesto di umiltà» (V 7,1) e che la allontana dalla preghiera, sembrandole non essere giusto che «trattasse tanto familiarmente con Dio chi meritava di vivere con i demoni» (V 7,1).

In tal modo, quella digressione del racconto, che costituisce il piccolo trattato sull'orazione, noto come le "quattro acque" (V 11- 21), prima di essere una pedagogia, un metodo, è lo svelarsi graduale della verità che la preghiera è essenzialmente dono, per il quale ci si decide nella fedeltà di ogni giorno, senza che esso possa mai dirsi il frutto del nostro lavoro; per chi vorrà percorrere questa strada, progredire significherà comprendere che un «favore così sublime e straordinario non è dovuto ad alcuna sua diligenza non avendo ella fatto nulla per ottenerlo e conservarlo» (V 19,2).

Resta, ora, da chiarire come l'irruzione del soprannaturale, con tutti i fenomeni straordinari che l'accompagnano, abbia un valore e un significato che va oltre l'eccezionalità del caso di Teresa, che non è il nostro, e che potrebbe non interessarci. Al contrario, questa effervescenza mistica ci costringe a meglio comprendere il senso di quel «rapporto di amicizia», come è definita la preghiera, rapporto entro cui si impara a stare, sapendosi amati, e sostenendo il disagio di una disparità di condizione, di una "distanza" «per cui non lo possiamo amare quanto Egli si merita» (V 8,5).

Ogni progresso spirituale deve, così, fare i conti con l'insufficienza dei meriti e l'assolutezza del dono. Se ci dovesse sembrare, pertanto, che al nostro rapporto con Dio manchi qualcosa, mancando il colore e la temperatura teresiana, sarà forse per non avere ancora inteso e non esserci convinti che proprio ed esclusivamente di dono si tratta, di grazia, e che la fiducia, soltanto, è la chiave che apre la porta della preghiera, dalla quale, a Teresa «vennero tante grazie» (V 8,9).

 

di padre Renato Dall'Acqua