"Nel Cuore della Chiesa"

 N. 2/2007

Editoriale

Solitudine: alla luce della Parola

 

 

«Quando un’anima giunge a confermarsi nella quiete dell’unico e solitario amore dello Sposo, si stabilisce tanto amorosamente in Dio e Dio in lei, che non ha più bisogno di altri mezzi e maestri che la guidino a Lui, poiché Egli è ormai sua guida e sua luce, compiendo in lei quanto promette in Osea (2, 14): “La condurrò nella solitudine e lì parlerò al suo cuore”. Con tali parole, vuol fare capire che nella solitudine, Egli si comunica e unisce all’anima, poiché parlare al cuore, vuol dire renderle soddisfatto il cuore, il quale non si appaga con cosa inferiore a Dio». (San Giovanni della Croce, Cantico 35,1)C’è chi sta volentieri da solo perché nessuno vuole stare con lui, oppure “ne ha abbastanza...” di cose, persone, problemi... Anche i nostri santi amavano la solitudine e allo stesso tempo la loro compagnia era ricercata e loro ci sapevano stare con le persone (cfr. santa Teresa di Gesù, Cammino di Perfezione 41,7).

Identificare il Carmelo, come talora accade, con la solitudine aspra ed eroica di un monte o del deserto, potrebbe risultare, dunque, fuorviante, a meno di non dare a quei simboli il significato di cui li hanno rivestiti la storia e l’esperienza del cammino di vita spirituale di testimoni autorevoli. “Monte” e “deserto” sono simboli che intendono affermare il senso e il valore fondamentale della vita come incontro con Dio, valore compendiato nella celebre espressione di santa Teresa: «Solo Dio basta». In essa è richiamata con decisione e chiarezza la verità su Dio, unico e solo, e sull’uomo, fatto per Dio. Se questa è la verità, serve, tuttavia, una pedagogia: la pedagogia di Dio, che si fa strada nella nostra vita rivelando di ogni cosa il limite (cfr Sal 119,96), facendoci approdare alla domanda sulla nostra personale identità: «Io chi sono?». Ė da questo confronto serio con se stessi che, dopo ogni smarrimento, possiamo ritrovare una direzione di cammino. Nell’esperienza umana, rispondere a questo interrogativo, richiede una risalita alle proprie origini. Ė, questo, un lavoro che attiene all’ambito della coscienza, e che comporta l’elaborazione di un vissuto fatto di relazioni, di appartenenze affettive e culturali, di riferimenti valoriali. In quanto cristiani, quando parliamo di identità, con il relativo bagaglio di storia, valori, cultura, appartenenza, non possiamo limitarci ad un livello sociologico o psicologico senza risalire ad una origine spirituale: l’incontro con la Parola creatrice di Dio che chiama continuamente all’esistenza, all’ascolto, alla sequela, alla comunione di vita.
Nel Vangelo, la questione che Gesù pone ai suoi discepoli e verso cui converge il loro percorso educativo è: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16, 15; Lc 9, 20). Il Vangelo vi risponde con le parole: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). Se leghiamo a questa affermazione la domanda: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mt 12, 48) ci accorgiamo che riconoscere questo “Tu” divino ha come conseguenza quella di farci ricomprendere le parole costitutive del linguaggio identitario, padre, madre, figlio, fratelli. Seguire quel “Tu”, dove «ognuno è chiamato da solo» (Bonhöffer), ascoltare la Parola di Dio e metterla in pratica (cfr Lc 8, 21) ci introdurrà in una nuova storia di paternità e di rapporti che ci permettono di rispondere alla domanda iniziale da cui siamo partiti: «Io chi sono?». Alla Luce della Parola ogni solitudine costituirà allora l’occasione di cammino per una risalita all’origine, attraverso la quale è ridefinita l’esistenza, ciò per cui viviamo e ciò per cui vale la pena vivere. A questa luce, anche la fatica della solitudine, e il senso di vuoto che spesso l’ accompagna, trovano una pienezza, che conosce chi, per fede, può dire: «Solo Dio basta»