« Troppo grande Amore »

 

 

Il Dio di Elisabetta della Trinità: verità di un amore che supera ogni attesa e ogni merito

 

L’ultimo lavoro di P. R. Fornara è questa antologia commentata di testi che permette un approccio significativo alla spiritualità di Elisabetta della Trinità.
Il filo conduttore di queste pagine è la sua esperienza di Dio come Amore infinito e immutabile, nello stupore adorante, schiacciato dalla misura “troppo grande” dell’amore divino, e nel desiderio di approfondire sempre più la “scienza della carità”, il dono di sé “sino alla fine”, che la consuma in una lenta malattia durante la quale scopre che il Dio - Amore abita anche la sua sofferenza.
I testi citati sono raggruppati in base a pochi versetti biblici significativi per la sua maturazione spirituale.
La presentazione dei singoli testi segue inoltre un criterio cronologico, lasciando intravvedere come ognuno di essi abbia plasmato l’animo e il cuore di Elisabetta.
E' semplicemente un invito parziale e limitato, certo, a lasciarsi stupire dal percorso di Elisabetta e, attraverso di lei, dal mistero dell’Amore infinito, che opera nel cuore di chi crede.

 

Il cuore dell’esperienza spirituale di Elisabetta della Trinità è la fede nel Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo, che abita nel cuore dell’uomo. Lo ha compreso fin dagli anni dell’infanzia, da quando la priora del Carmelo di Digione le ha rivelato una delle possibili etimologie del suo nome: “ casa di Dio ”. Elisabetta vive per esperienza la frase di Gesù ai suoi discepoli: « Se uno mi ama, custodirà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui » (Gv 14,23).
Che cosa significa per lei credere nel mistero della Trinità? Significa soprattutto credere in un Dio personale che è - nella sua intima essenza - relazione d’amore.
Elisabetta ama e cita spesso la frase della prima lettera di Giovanni: « Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (l Gv 4,16). Il suo programma di vita diviene il desiderio di vivere «senza sosta, attraverso ogni cosa, con Colui che abita in noi e che è Carità» (L 179). « Sii il suo paradiso - scrive alla sorella Guite - in quel paese in cui Egli è così poco conosciuto, così poco amato, apri il tuo cuore quanto più ti è possibile per ospitarlo, e poi lì, nella tua celletta, ama, mia Guite!... Egli ha sete d’amore... » (L 210).
Dio ha sete d’amore. Ma prima di mettersi in gioco nella prospettiva dell’amore, prima di qualsiasi impegno concreto nella via dell’amore operoso, viene la scoperta dell’amore divino che precede sempre: « noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi ». Essere figli è fidarsi, credere di essere amati.
Nell’attesa dell’incontro pieno e definitivo con Colui che amiamo, « crediamo all’amore con san Giovanni » (L 239).
La carmelitana è chiamata a viverlo e a testimoniarlo in un modo del tutto particolare: « Io credo che la carmelitana attinga (...) la sua felicità a questa sorgente divina: la fede. Crede, come dice san Giovanni, “ all’amore che Dio ha avuto per lei ”. Crede che questo stesso amore l’ha attirato sulla terra... e nella sua anima, perché Colui che si è chiamato la Verità ha detto nel Vangelo: “Rimanete in me, e io in voi ". Allora, in tutta semplicità, obbedisce al comandamento così dolce e vive nell’intimità con il Dio che dimora in lei, che le è più presente di quanto ella lo sia a se stessa. Tutto questo (...) non è frutto di sentimento o di immaginazione, è fede pura » (L236).
È una fede che deve attraversare e superare tutti gli ostacoli, tutte le avversità: « Credi sempre all’Amore, malgrado tutto ciò che passa. / Se talvolta Dio sonnecchia al centro del tuo cuore, / Non risvegliarlo, perché è un’altra grazia / Che la sua bontà prepara al suo piccolo fiore » (P93).
Credi sempre all’Amore è il titolo anche di un’altra sua poesia, composta nell’agosto 1905 (P95), che rinnova l’invito appassionato ad una fede pura e salda. Nulla, più della “ carità ” (la radice greca charis contenuta nel termine contribuisce a sottolineare la gratuità dell’amore di benevolenza e di misericordia), può realmente definire chi è Dio per noi.
È soprattutto nel corso del 1906, l’ultimo anno della sua vita terrena, l’anno della sofferenza e della malattia, che le citazioni sulla fede nel Dio - Amore si moltiplicano.
La fede incrollabile di Mosè, « come se vedesse l’invisibile » (Eb 11,27), diviene il simbolo e il modello della fiducia in un « amore troppo grande », conosciuto e accolto (UR 10). Noi abbiamo creduto alla carità di Dio per noi, intitola una poesia per la priora, che compone ormai nell’infermeria del monastero: « Nel seno stesso dei Tre dove tutto è puro e bello / “ l’agnellino ”, [cioè Elisabetta stessa] ha potuto raccogliere un magnifico regalo. / Nel grande Cuore del Padre orientato su di te, / Vedevo risplendere una freccia ardente, / E il mio Verbo adorato, volgendo gli occhi su di me, / Sembrava ritirarla dalla fornace ardente. / Poi, consegnandomela come un “ pegno d’amore ”, / Perché ad ogni istante la tua anima vi possa credere: / “ Ritorna ”, mi disse, al soggiorno terrestre, / Dille “ che è amata ”, o Lode di gloria » (P 98). Verso la fine del mese di aprile, scrive quasi come in un testamento alla sorella: « ti lascio la mia devozione per i Tre, all’Amore » (L 269). “ Amore ” è il vero nome della Trinità « in charitate, cioè in Dio, Deus Charitas est... » (UR 6), tutte le pagine dedicate al mistero dell’inabitazione trinitaria convergono verso questo centro e questa pienezza di senso. Nella stessa lettera aggiunge il suo invito pressante: « Credi sempre all’Amore. Se ti capita di soffrire, pensa che sei ancora più amata, e canta sempre il tuo grazie ».
Il Dio rivelato in Gesù Cristo, infatti, « è un Dio d’amore; non riusciamo a capire fino a che punto ci ama, soprattutto quando ci mette alla prova » (L 267). «... Anche quando non lo sentiremo, [scrive più tardi] crederemo (...) alla sua azione che è tutta amore » (L 301). Conoscere l’amore di Dio per noi e credere a questo amore: « ecco qui il grande atto della nostra fede; è il mezzo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il segreto nascosto (Col 1,26) nel cuore del Padre, di cui parla san Paolo, che noi finalmente penetriamo, e tutta la nostra anima trasalisce!» (fin qui la citazione a memoria di una lettera ricevuta da p. Vallée).
Quando essa sa credere a questo “ troppo grande amore ” (Ef 2,4) che è su di lei, si può dire come è detto di Mosè: « Era incrollabile nella sua fede come se avesse visto l’Invisibile » (Eb 11,27). « Non si ferma più ai gusti, ai sentimenti; poco le importa di sentire Dio o di non sentirlo; poco le importa se Egli le dona la gioia o la sofferenza: essa crede al suo amore. Più è messa alla prova più la sua fede si ingrandisce, perché essa attraversa per così dire tutti gli ostacoli per andare a riposarsi nel seno dell’Amore infinito, che non può fare che opere d’amore » (CF 20).
Questa convinzione si dilata in lei fino a punto da lasciarla come un testamento spirituale, scrivendo - a poche settimane dalla morte - le due lettere seguenti: « ...è ciò che ha fatto della mia vita (...) un Cielo anticipato: credere che un Essere che si chiama l’Amore abita in noi ad ogni istante del giorno e della notte e che ci chiede di vivere in società con Lui, ricevere allo stesso modo come procedenti direttamente dal suo amore ogni gioia, come ogni dolore; questo innalza l’anima al di sopra di ciò che passa, di ciò che stritola, e la fa riposare nella pace » (L 330).
« ... Le lascio la mia fede nella presenza di Dio, del Dio tutto Amore che abita nelle nostre anime. Glielo confido: è questa intimità con Lui “ al di dentro ” che è stata il bel sole che ha irradiato la mia vita, facendone già come un Cielo anticipato; è ciò che mi sostiene oggi nella sofferenza » (L 333).
Di fronte alla scoperta di questo Dio, la persona deve porsi in un atteggiamento di stupore adorante. Lo testimonia nei suoi scritti la frequenza e la partecipazione con cui cita l’espressione paolina di Ef 2,4, un inciso riferito al Dio “ ricco di misericordia ”. Più che questa espressione, però, le sta a cuore la misura dell’amore divino. Il testo greco di san Paolo parla letteralmente del “ grande amore ” di Dio, ma la traduzione latina della Vulgata, rendendo l’espressione con propter nimiam caritatem, apriva la strada ad un’interpretazione ancora più larga, comune ai tempi di Elisabetta: il latino parla di un amore “ eccessivo ” (nimiam), “ smisurato ”. È, appunto, il linguaggio dello stupore adorante, che riconosce il carattere gratuito, immeritato, inatteso e insperato di questo amore. La fede ci porta ad abitare fin d’ora in un mondo soprannaturale e divino, «... sotto l’abbraccio del Dio tutto Amore! La sua carità, la sua “troppo grande carità” per usare ancora il linguaggio del grande apostolo, ecco la mia visione sulla terra. (...) capiremo mai quanto siamo amati? » (L191).
Per Elisabetta della Trinità i passi non fatti nel cammino della vita spirituale, le infedeltà, i ripiegamenti, le omissioni nascono semplicemente dal non aver scoperto - con la “ scienza dei santi ” - o dal non tener presente la profondità e la ricchezza dell’amore di Dio.
La carmelitana ne può parlare per esperienza; così scrive in conseguenza di un ritiro dell’autunno 1904, in cui ha meditato su questi temi: « Sì, è vero ciò che dice san Paolo, “ Ha troppo amato ”, troppo amato la sua piccola Elisabetta.
Ma l’amore chiama l’amore ed io non chiedo più nient’altro al buon Dio se non di capire quella scienza della carità di cui parla san Paolo (Ef 3,18-19) e di cui il mio cuore vorrebbe scandagliare tutta la profondità. Sarà il Cielo, (...) ma mi sembra che lo si possa già cominciare sulla terra, poiché lo si possiede, Lui, e poiché attraverso ogni cosa si può rimanere nel suo amore » (L 219).
La fede nell’amore eccessivo ha per lei un taglio esperienziale: è nella propria vocazione, negli eventi della propria vita che Elisabetta rilegge la verità di un Amore che supera ogni attesa ed ogni merito.
E questa lettura teologale raggiunge il proprio apice di fronte alla realtà della sofferenza: « Quando una grande sofferenza o un piccolissimo sacrificio ci si presenta, oh, pensiamo immediatamente che “ è la nostra ora ”, l’ora in cui dimostreremo il nostro amore a Colui che ci ha “ troppo amato ”, dice san Paolo » (L 308).

 

 

« O Verbo eterno... »

 

 Il Dio che parla ad Elisabetta della Trinità

 

Nella celebre Elevazione alla SS.ma Trinità, Elisabetta si rivolge a Cristo con queste parole: «O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio farmi tutta ammaestrabile, per imparare tutto da te [...] voglio fissarti sempre... ». Non sono espressioni casuali.

 

È il suo modo privilegiato di guardare al Figlio. Se Teresa di Gesù Bambino si lascia plasmare dai vangeli sinottici, per cui la sua comprensione del Figlio è relativa alla sua umanità, alla sua divinità, alla sua sponsalità (elementi tutti che non sono affatto estranei alla mistica di Digione), per Elisabetta c’è una sfumatura specifica, particolare. Si lascia condurre piuttosto dalla cristologia giovannea, per cui il Figlio è soprattutto il Verbo, la Parola, il Rivelatore dei segreti del Padre. Pur senza rinnegare gli altri modi di guardare sia all’umanità, sia alla divinità di Gesù, è possibile affermare che questo modo di guardare al Figlio sia caratteristico della giovane carmelitana.

Già negli anni giovanili, nella vita laicale, partecipando ad esempio alla grande missione popolare predicata dai padri redentoristi a Digione, oppure fortificandosi nella fedeltà all’orazione quotidiana davanti al Santissimo Sacramento, Sabeth Catez descrive i «cuore a cuore» durante i quali Gesù e la sua giovane innamorata si parlano:

«Oh! che meraviglia le tre giornate che ho appena trascorso! La sera facevo una buona mezz’ora di adorazione al Santissimo Sacramento prima dell’ufficio delle 20,00; chi potrebbe descrivere la dolcezza di quei cuore a cuore durante i quali si crede di non essere più sulla terra, e non si vede, non si sente altro che Dio! Dio che parla all’anima, Dio che le dice delle cose così dolci, Dio che le chiede di soffrire! Gesù, infine, che desidera un po’ di amore, per essere consolato!...»(D 8). E ancora: «In tutti questi giorni la sera vado a fare una visitina al Santissimo Sacramento. Che momento delizioso passo accanto al mio Diletto! Lascio andare il mio cuore alle più dolci effusioni, mi sorprendo a dire mille follie a questo Sposo divino; ma Egli ama questo abbandono, questo cuore a cuore. Poi ascolto la sua voce tanto dolce che mi parla in fondo all’anima, che mi dà dei consigli premurosi, che mi prepara alla vita che seguirò presto»(D135). Se il punto di partenza è il desiderio di parlare a Dio, la situazione si capovolge immediatamente, lasciando il primato all’ascolto del Dio che parla.

Anche rileggendo - all’età di 18 anni - l’evento della sua prima comunione, non si lascia andare a sentimentalismi o a devozionalismi, ma lo rilegge come la prima parola di Dio alla sua anima: «Giorno benedetto, il più bello della mia vita, / Giorno in cui Gesù riposava in me, / Giorno in cui intesi parlare la sua voce /Proprio in fondo alla mia anima rapita» (P 47). Un’ esperienza che cresce, che matura, che si condensa soprattutto intorno allo spazio della contemplazione silenziosa, l’unico luogo in cui Dio può parlare al cuore: «è proprio in questa solitudine che Egli parla al cuore» (L 156). Su un taccuino, già al Carmelo, annota una citazione: «Il linguaggio del Verbo è l’infusione del dono», e commenta in proposito: «Oh sì, è proprio così che Lui parla alla nostra anima nel silenzio. Trovo che questo caro silenzio sia una beatitudine»(L 165).

Un’esperienza totalizzante, radicale, che richiede l’attenzione della mente e del cuore:

«Quando sento parlare la tua voce, /0 Sposo mio, o mio buon Maestro, / Facendo silenzio in tutto il mio essere / Non sento, non vedo che te» (P67). Perciò Elisabetta non solo ascolta, ma desidera, invoca la Parola di Dio:

«Il Cielo sei tu, nella fede, il mistero! Dimmi tutto stamattina, oh! parlami del Padre, / Per sentire la tua voce saprò ben tacere » (P 77).

Una delle caratteristiche di questo parlare da parte di Dio sembra essere la semplicità dell’intuizione. Rievocando un ritiro vissuto dalla beata, la sua priora (madre Germana) racconta: «Durante questi giorni benedetti [...] il suo Maestro diletto le parlava [...], non in formule, ma aprendole nuovi orizzonti [...]. Le sarebbe stato difficile mettere per iscritto quanto riceveva da Dio in questa forma tanto profonda quanto semplice». E la protagonista stessa conferma:

«Quando il mio Maestro mi fa sentire questa parola in fondo all’anima...» (UR 25). Il Dio che parla le fa percepire la bellezza di una parola, la verità di un’affermazione. Le fa intuire un orizzonte infinito, le indica un sentiero da percorrere...

La presenza eucaristica o l’inabitazione trinitaria non sono gli unici luoghi sacramentali in cui Dio le parla. La celebrazione liturgica, ad esempio, con la ricchezza e la varietà dei tempi nell’anno liturgico, diviene un messaggio da interiorizzare: «Questa festa di Natale parla tanto all’anima» (L 39). Tutta la natura, poi, risvegliando in lei il gusto della bellezza, l’ampiezza degli orizzonti infiniti, il senso dell’armonia, il rimando al Creatore, è una parola eloquente di Dio per lei. Nelle lettere dal Carmelo vi ritorna spesso, relativizzando nello stesso tempo quell’esperienza: «Amavo tanto quelle montagne che mi parlavano di Lui. Ma, vedete, mie care, gli orizzonti del Carmelo sono ancora più belli, è l’Infinito!...» (L 87).

Per scoprire la parola di Dio nella natura, non è sufficiente, del resto, uno sguardo semplicemente estetico: «Mi sembra lontanissimo il tempo in cui ci arrampicavamo su per le montagne. Mi ricordo la bella vista dalla nostra camera!... Non trovi che quella natura parli di Lui? L’anima ha bisogno di silenzio per adorare...» (L 210). Sarà l’atteggiamento di Elisabetta nella malattia, quando la priora del monastero le consente di andare spesso all’aria aperta; la giovane malata commenta: «... così, invece di lavorare nella nostra celletta, mi sistemo come un eremita nell’angolo più deserto del nostro grande giardino, dove passo ore deliziose.

Tutta la natura mi sembra così piena di Dio: il vento che soffia tra i grandi alberi, gli uccellini che cantano, il bel cielo azzurro, tutto questo mi parla di Lui» (L 236).

Alla zia scrive: «Oh, com’era bella, zietta mia, questa piccola valle alla luce delle stelle, quell’immensità, quell’infinito, tutto mi parlava di Dio... Non dimenticherò mai quelle vacanze passate da voi, saranno sempre tra i miei ricordi migliori, e voi nella parte migliore del cuore (...) Quanto a me ho trovato il mio Cielo sulla terra in questa mia cara solitudine del Carmelo dove sono sola con Dio solo. Faccio tutto con Lui, come anche affronto tutto con una gioia divina; sia che spazzi, sia che lavori o sia in orazione, tutto trovo bello e delizioso, perché vedo dappertutto il mio Maestro!» (L 139).

«Vedere dappertutto il Maestro» è - nella vita della carmelitana - la garanzia di cogliere nella verità la sua parola esigente e attuale: «Nel silenzio e nella solitudine qui si vive sole con Dio solo, qui tutto parla di Lui, ovunque lo si sente tanto vivo, tanto presente» (L 142). Proprio perché «tutto parla di Lui» si possono unificare gli sforzi del cammino spirituale e non vi è più frattura tra tempi sacri e tempi profani, tra preghiera e lavoro, tra esperienze gratificanti, gioiose e sofferenze.

Man mano che progredisce la malattia, infatti, la sofferenza stessa - accolta con amore - diviene parola di Dio per lei. È una parola che le dischiude gli orizzonti della beatitudine eterna: «La Beatitudine mi attira sempre di più: tra il mio Maestro e me non si parla d’altro, e tutta la sua occupazione è di prepararmi alla vita eterna» (L 306); «... tutto mi parla della mia partenza per la Casa del Padre; sapesse con quale gioia serena attendo il faccia a faccia» (L 293); «... il mio Maestro mi incalza, non mi parla che dell’eternità di amore. E così grave, così serio; vorrei vivere pienamente ogni minuto».

«Non ho la forza e il permesso di scrivere a lungo, ma lei conosce la frase di san Paolo: “la nostra conversazione è nei Cieli”»(Fil 3,20). «Sorellina amata, viviamo di amore per morire di amore e glorificare il Dio tutto Amore» (L 335). Quando è chiamata a confrontarsi anche con la sofferenza altrui, la carmelitana sa di non poter consolare con le proprie parole, ma di essere chiamata a lasciar parlare Dio: «Oggi condivido tutto il suo dolore; può indovinare tra queste righe quello che il mio cuore non può dirle. Di fronte a prove simili solo il buon Dio può parlare, perché è Lui il Consolatore supremo!» (L 195). Spiega infatti: «Mi sembra che in tali ore solo il Maestro possa parlare, lui il cui Cuore così divinamente amante «si turbò» al sepolcro di Lazzaro» (cf Gv 11,33) (L200).

Negli ultimi anni della vita in monastero la grande mediazione della Parola divina diviene la lettura orante della Scrittura. La monaca di Digione vive un cammino quotidiano e fedele di lectio divina, non in modo razionale, ma contemplativo e orante. Si lascia ammaestrare dalla Parola di Dio, anche se certe scoperte nascono in lei prima di incontrare la conferma definitiva nella Scrittura.

Le Lettere, gli Ultimi ritiri, alcune Note intime sono intessuti di citazioni bibliche. Alcune volte le attinge dalla predicazione che ascolta, altre volte dalle opere che legge, molte volte dalla liturgia, spesso dal contatto diretto, soprattutto con gli scritti giovannei e con le lettere di Paolo. «Voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio farmi tutta ammaestrabile» - così si esprime nell’Elevazione - significa concretamente il desiderio di compiere questo cammino quotidiano di lectio divina nell’ascolto orante della Parola, cogliendo che il centro della Regola carmelitana consiste proprio nel meditare giorno e notte la legge del Signore.

Nel suo breviario conserva un’immagine di Teresa di Gesù Bambino all’arpa (dipinta dalla sorella Celina), con una strofa di una poesia della santa, che contiene l’espressione «Parola del mio Dio»: un’immagine e un’espressione che può vedere e contemplare quotidianamente.

Quando accosta la lettura biblica, soprattutto quella evangelica, ha la coscienza viva di trovarsi di fronte al Cristo che le parla personalmente. Si incontrano così nei suoi scritti espressioni come queste: «Quando Gesù parlava alla samaritana...» «un giorno parlò alla Maddalena...» «parlando ai suoi discepoli...». Oppure, in modo ancor più personale e attualizzante: «...Gesù ci dice... » «san Paolo ci parla... »

Allo stesso tempo, Elisabetta è cosciente di trovarsi di fronte ad una parola efficace e autorevole, come manifesta il suo commento ad una citazione, appena riportata, della prima lettera ai Corinzi: «È san Paolo che parla così, possiamo crederci »(L 249).

 

(Maggiori dettagli nel libro: R. Fornara, Dio è amore. Percorso biblico con Elisabetta della Trinità, Edizioni OCD, Roma Morena 2006).

 


Mio Dio,Trinità che adoro...

 

Commento all'Elevazione di Elisabetta della Trinità

 

Composta nel 1904, l’Elevazione alla Trinità ha contribuito a far conoscere universalmente Elisabetta della Trinità. Questa preghiera, sintesi e apice della sua esperienza trinitaria, si può leggere e meditare ma soprattutto ascoltare e contemplare, quale finestra spalancata su orizzonti ampi e luminosi, invito a considerare la dimensione contemplativa della vita nello Spirito.
Elisabetta si rivela una vera contemplativa, che si lascia plasmare dalla Parola per rimanere nell’amore e vivere le esigenze dell’adozione filiale. Non si può meditare questa preghiera senza lasciarsi attirare in un irresistibile vortice d’amore, senza aprire il cuore allo stupore adorante, senza sentire nascere nel profondo un desiderio: abitare la casa di quel Dio che abita dentro di noi.


O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente per stabilirmi in te, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità. Che nulla possa turbare la mia pace, né farmi uscire da te, o mio Immutabile, ma che ogni minuto mi porti più addentro nella profondità del tuo Mistero.
Pacifica la mia anima, fanne il tuo cielo, la tua dimora amata e il luogo del tuo riposo. Che non ti ci lasci mai solo, ma che sia là tutta intera, tutta desta nella mia fede, tutta adorante, tutta abbandonata alla tua Azione creatrice.

 

Il primo paragrafo della preghiera di Elisabetta si rivolge alla Trinità nel suo insieme chiedendo il dono della pacificazione interiore.


O mio Dio,
Trinità
che adoro...


Rileggendo il testo della preghiera, cerchiamo di penetrare soprattutto che cosa essa chiede, su che cosa si fonda e in che misura comunica l’esperienza viva di preghiera e di contemplazione dell’autrice.
Il primo paragrafo si rivolge a Dio Trinità soprattutto nella sua unità, e chiede il dono dell’unificazione interiore. Sono necessarie due sottolineature fondamentali già nel modo con cui ci si rivolge a Dio all’inizio della preghiera: « O mio Dio, Trinità che adoro...».
In primo luogo, la Trinità che riposa in noi, cioè il cielo anticipato, il cielo sulla terra è l’ideale di vita di Elisabetta della Trinità. In secondo luogo, la condizione fondamentale della carmelitana, o piuttosto del cristiano, è proprio questo atteggiamento di adorazione. Nel sottofondo di tutta la preghiera c’è un’atmosfera di adorazione che emerge continuamente.
L’orazione inizia con questa espressione: «O mio Dio, Trinità che adoro...».
Alla fine del primo paragrafo avanza la richiesta di essere « tutta adorante », e l’invocazione rivolta al Figlio, nel secondo paragrafo, chiederà a Cristo, lo Sposo amato, di venire in lei « come Adoratore ». Tutto respira di questa adorazione: non si può concepire l’esistenza della carmelitana, se non in questo orizzonte di adorazione.
Che cosa significa adorare secondo Elisabetta della Trinità? Lasciamolo dire a lei stessa, per non rischiare di banalizzare il discorso.
Lo afferma in modo particolare nell’Ultimo ritiro:
« l’adorazione, ah! è una parola del Cielo! Mi sembra che la si possa definire: l’estasi dell’amore. È l’amore schiacciato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa dell’Oggetto amato... »
Proseguendo nello stesso testo con citazioni di Ruysbroec e Lacordaire, accosta l’adorazione al silenzio, un silenzio pieno e profondo, il silenzio che si canta nel seno della Trinità, ma anche il silenzio della creatura estasiata che rimane a bocca aperta, che non ha più parole da pronunciare. L’adorazione come « estasi dell’amore », dunque.
Queste espressioni sono da leggere all’interno del vocabolario di Elisabetta.
Nell’Elevazione sta chiedendo a più riprese di uscire da se stessa, ed “ estasi ” etimologicamente significa “ essere fuori di sé ”, “ uscire da sé ”: non sta evidenziando tanto l’aspetto estatico, meraviglioso, sensazionale dell’esperienza, ma sta affermando che l’adorazione è vera nella misura in cui è guidata dall’amore, e nella misura in cui questo amore porta ad uscire completamente da se stessi. La seconda parte del testo citato offre forse una delle definizioni più belle dell’adorazione:
« questa è l’amore schiacciato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa dell’Oggetto amato ».
Adorazione è sempre un atto d’amore, ed è sempre risposta, corrispondenza.
Mentre altri santi del Carmelo sono indubbiamente più ricchi e completi dal punto di vista dottrinale, la bellezza di Elisabetta della Trinità consiste nella piena fedeltà a se stessa e al nucleo fondamentale della propria vocazione: qualsiasi pagina si legga, sia nei Ritiri, sia nelle Note intime, sia nell’epistolario, in cui comunica con altre persone e racconta la sua esperienza, testimonia la sua volontà di ritornare costantemente sulle stesse scoperte, di approfondirle, di gioirne, di condividerle.
È profondamente “ una ”, unificata interiormente ed esteriormente intorno a un progetto di vita che non è un suo ideale, ma la predestinazione d’amore che Dio le ha riservato. Gli stessi temi, gli stessi atteggiamenti, lo stesso stupore, spesso gli stessi termini ritornano costantemente.
Tornando alle espressioni iniziali della preghiera, ci siamo imbattuti in un orizzonte di amore e di adorazione. Facciamo un passo ulteriore: “ amare e adorare ” sono spesso uniti negli scritti di Elisabetta della Trinità. E questo « amore adorante », questa «adorazione amorosa» non è caratteristica del momento della preghiera, ma è l’atteggiamento vitale, esperienziale della carmelitana.
Fra i tanti, c’è un bel testo in cui - come altre volte - la mistica francese si sofferma a meditare una parte del dialogo di Gesù con la donna samaritana in cui il tema specifico è proprio quello dell’adorazione. La domanda della donna a Gesù pretende di chiarire quale sia il luogo dell’adorazione:
il monte Garizim (secondo i samaritani) o il tempio di Gerusalemme (secondo i giudei)?
Sappiamo che la risposta di Gesù è l’invito ad un’adorazione intima, interiore: è l’uomo, la persona, il cuore della creatura il luogo sacro in cui siamo chiamati ad adorare Dio.
Questa risposta di Gesù dice anche il desiderio del Padre, di trovare adoratori « in spirito e verità ». La giovane carmelitana si chiede che cosa significhi adorare « il Padre in spirito e verità », arrivando a questa risposta: « adoriamolo in “spirito”, cioè abbiamo il cuore e il pensiero fissi in Lui, lo spirito pieno della sua conoscenza per mezzo della luce della fede ». Dunque un’adorazione che non si compie semplicemente nel momento della preghiera, ma che tocca la vita concreta, la vita quotidiana, « ogni minuto », come dirà poco più avanti nell’Elevazione. Lo stesso testo così prosegue: « adoriamolo in “ verità ”, cioè per mezzo delle nostre opere, perché è soprattutto per mezzo degli atti che siamo vere; è fare sempre ciò che piace al Padre, di cui siamo le figlie ».
Con un accento teresiano, si afferma che solo le opere sono il segno concreto, evidente, chiaro dell’amore che a parole diciamo di nutrire per Dio. In conclusione: « adoriamolo in spirito e in verità, cioè per mezzo di Gesù Cristo e con Gesù Cristo, perché Egli solo è il vero adoratore in spirito e in verità ». Solo Cristo è il vero adoratore del Padre; ecco perché - poco più avanti - Elisabetta chiederà al Figlio: « vieni in me come Adoratore », cioè « sii tu ad insegnarmi come essere una vera adoratrice del Padre in spirito e verità ».


Aiutami a
dimenticarmi
interamente


Nelle richieste di questo paragrafo, il primo posto spetta all’esigenza di dimenticarsi, di annientarsi, di diminuire: « aiutami a dimenticarmi interamente per stabilirmi in te ». Perché dimenticarsi? perché la rinuncia? perché l’ascesi? perché la penitenza? perché morire a se stessa, se non in funzione di questo abitare in Dio, essere piena di lui, rimanere radicata in lui? Ci sono altri testi in cui Elisabetta chiede l’aiuto di Dio proprio perché è cosciente della propria povertà e della propria debolezza.
Un’altra Nota intima di qualche anno precedente chiede espressamente il sostegno divino: « come soffro, o mio Dio. Ma voglio pur rimanere in questo stato finché ti piacerà, poiché questa beata sofferenza purifica la mia anima che vuoi unire a te più intimamente. Ancora, ancora, fintanto che vorrai, ma sostienimi, sono così debole ». Elisabetta non si appoggia mai sulle proprie forze, sui propri progetti, sulle proprie qualità; perciò prega dicendo: « aiutami a dimenticarmi ».
C’è una finezza particolare in questa espressione. Non dice: “ Signore, fa che io mi dimentichi ”, come se Dio fosse chiamato ad intervenire dall’esterno con una bacchetta magica per realizzare in lei quest’opera, ma: « aiutami a dimenticarmi ».
Significa che c’è tutta una volontà che deve impegnarsi in questo, c’è tutto un cammino, una fatica, una laboriosità, e la carmelitana non vuole rinunciare a tutto questo cammino, a tutta questa fatica, non pretende che Dio risolva in un istante tutti i suoi problemi e tutte le sue difficoltà. Pretende (questo sì) che le stia vicino nel cammino, che la sostenga con il suo aiuto, proprio perché si riconosce debole, povera e fragile. Nasce allora spontanea questa invocazione: « aiutami a dimenticarmi interamente (senza mezze misure n.d.r.) per stabilirmi in te » in cui lo “ stabilirsi ” rimanda chiaramente al campo semantico della casa, come sinonimo di tanti verbi quali “abitare”, “ rimanere ”, “ dimorare ” (la stessa Elevazione presenta alcuni esempi).
E' la casa paterna dalla quale non dobbiamo più uscire, è quell’abitazione - il « cielo sulla terra » - in cui Elisabetta chiede di poter entrare e rimanere costantemente, tutta intera.
Nel ritiro Il cielo nella fede si richiama, in proposito, alle espressioni della lettera agli Efesini: « voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio »: ci è stato fatto il dono di essere inseriti nella casa del Padre (« la Trinità, ecco la nostra dimora »), e il nostro compito è quello di stabilirci, radicarci, fondarci in questa abitazione, fare in modo - sono ancora espressioni paoline - che la nostra costruzione abbia fondamenta solide, sia ben radicata in Cristo Gesù, e sia una casa costruita sulla roccia.
 

Immobile
e quieta


L’orizzonte che anima maggiormente questa prima parte è la richiesta di una grande pacificazione interiore: «... immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità... che niente possa turbare la mia pace... pacifica la mia anima...»
Dunque un orizzonte di pace, di passività: in questo siamo in piena sintonia con la spiritualità carmelitana, che è di natura sua una spiritualità profondamente passiva, non nel senso di inerzia, ma nel senso di imparare a lasciar fare a Dio, lasciarsi educare, guidare da lui, non mettere se stessi al centro, ma ascoltare.
Questa pacificazione interiore è prima di tutto un atteggiamento di passività, perché tutti i moti che in qualche modo si possono opporre a questa esigenza di pacificazione sono ostacoli che la creatura pone al progetto di Dio e all'opera che Dio va compiendo in lei.

Il primo paragrafo chiede soprattutto le condizioni fondamentali della vita spirituale, mette come le fondamenta, basandosi su ciò che è necessario per vivere davvero l’esperienza di Dio. Forse - più di tutte le altre parti della preghiera - esso risente della lettura e della meditazione di Giovanni della Croce (oltre che di altre fonti non carmelitane).
Se si rileggono alcune pagine del Cantico spirituale, si può vedere come le richieste di questo paragrafo corrispondano a ciò che Giovanni della Croce dice a proposito del matrimonio spirituale: la pacificazione interiore è tipica dell’ultimo stadio del cammino della comunione mistica con Dio, in cui il Figlio di Dio stabilisce la sposa nel possesso perfetto della pace.

Per capire meglio queste richieste, richiamiamo un’immagine cara ad Elisabetta della Trinità: la superficie delle acque di un lago. Se l’acqua è perfettamente immobile, il semplice posarsi di un insetto sulla superficie produce subito cerchi concentrici, che rivelano quella presenza; quando le acque sono agitate dal vento, anche gettando una pietra nel lago non si percepisce alcun movimento.

L’orante chiede di divenire immobile, quieta come la superficie tranquilla delle acque di un lago; chiede cioè a Dio di pacificare tutte le potenze, tutti i movimenti, tutti gli appetiti, tutti i moti disordinati che si agitano nel suo cuore.

Contro tali movimenti disordinati Elisabetta vuole diventare «immobile», un’espressione ricorrente nei suoi scritti: sa di essere per natura un temperamento impulsivo, ricorda quanto ha dovuto lottare nell’adolescenza e nella giovinezza per rinnegare se stessa in questa irascibilità, e dunque conosce benissimo l’esigenza di un cammino di pacificazione interiore contro i movimenti disordinati. Sa, in modo particolare, che Giovanni della Croce definisce la collera un movimento impetuoso che turba la pace, e allora deve vincere, con l’aiuto di Dio, questo movimento disordinato.
Nella Fiamma viva, un altro testo da lei letto e meditato, Giovanni della Croce parla più semplicemente dello sguardo, dell’attenzione amorosa nella tranquillità di spirito, nella pace, «immobile e quieta», come qualcuno che apre gli occhi per guardare con tenerezza. In un certo senso, la vittoria sulla collera, sull’impulsività, sui pensieri disordinati è già un atto di adorazione per Elisabetta della Trinità, perché è già l’amore che vince e che rimane pacificato interiormente in uno sguardo semplice, che si fissa sull’oggetto e sulla persona amata.
Tutto ciò è un riflesso dell’immutabilità divina: non deve sorprendere che la giovane carmelitana chiami Dio con l’attributo «mio Immutabile»; gli chiede, infatti, di renderla immobile come lui, poiché si riconosce mutevole, disordinata, in preda a mille pensieri, a mille desideri, a mille agitazioni.
Va ricordato, inoltre, come nella Nota intima 13 vi sia la piena coscienza che questo stato di pacificazione caratterizza il matrimonio spirituale, perché parla del matrimonio come dello “stato fisso”. In una parola, possiamo forse interpretare tutte queste richieste del primo paragrafo con le espressioni dell’Ultimo ritiro, quando chiede a se stessa un’unica realtà: occuparsi nell’amore e non disperdere le proprie forze. Il segreto del rinnegamento di se stessi sta tutto qui: «fare l’unità in tutto il proprio essere per mezzo del silenzio interiore, [...] raccogliere tutte le potenze per occuparle nel solo esercizio dell’amore, [...] avere quell’occhio semplice che permette alla luce di Dio di irraggiarci».
Questa semplicità e purezza dello sguardo, che Elisabetta può aver attinto dalla lettura di Ruysbroec, significa occuparsi esclusivamente nell’esercizio dell’amore, con tutte le proprie facoltà, mentre lo sguardo è spesso rapito da molte realtà, dalla curiosità, dall’invidia, da sentimenti e movimenti disordinati.
Il testo citato si conclude con una annotazione di carattere musicale, propria della sua sensibilità estetica: «un’anima che discute con il suo io, che si occupa delle proprie sensibilità, che persegue un pensiero inutile, un desiderio qualunque, quest’anima disperde le proprie forze, non è tutta ordinata a Dio: la sua lira non vibra all’unisono e il Maestro, quando la tocca, non può farne uscire armonie divine, c’è ancora troppo di umano, è una dissonanza».

Una persona dispersa interiormente non è meno amata da Dio: semplicemente il cuore di Dio ne è come rattristato, perché la vede perdere tempo ed energie, quando potrebbe accogliere con molta più semplicità, con molta più pace e unità interiore il dono che Dio le riserva per quel momento.
La grande fiducia che anima l’orante nelle sue richieste è la certezza incrollabile che Dio è fedele. Che cosa significa, infatti, chiamare Dio mio Immutabile se non questo: Dio è fedele a se stesso, Dio non muta? Il 16 luglio 1906, nella solennità della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, Elisabetta scrive alla sorella Margherita un invito a non tener conto della propria sensibilità, dei propri pensieri, dei propri sentimenti, cancellando dal proprio dizionario d’amore la parola «scoraggiamento».
Questi consigli ed esortazioni le offrono l’occasione per dare una delle migliori definizioni di ciò che intende per immutabilità divina: «Che importa ciò che sentiamo noi; Lui, Lui è l’Immutabile, Colui che non cambia mai: ti ama oggi come ti amava ieri, come ti amerà domani». A questo, solo a questo Margherita deve prestare attenzione: che cosa importano i suoi pensieri e i suoi sentimenti?
Che cosa importa persino il suo peccato o la sua infedeltà, la sua incapacità di rialzarsi e di camminare? L’importante è sollevare lo sguardo e tenerlo fisso in Dio, nella sua fedeltà d’amore: «Ti ama oggi come ti amava ieri, come ti amerà domani». Questo è l’essenziale del cammino di fede: credere che Dio non può rinnegare se stesso e che rimane fedele al suo amore. Elisabetta lo sa per esperienza: «Dio è amore».
 

La dimora

interiore
 

Un’altra caratteristica del movimento di unificazione interiore e di pacificazione totale, è il fatto che esso non significa semplicemente non uscire da questa abitazione, ma entrarvi più addentro, andare sempre più in profondità.
Questo desiderio viene espresso esplicitamente: «che niente possa turbare la mia pace, né farmi uscire da te, o mio Immutabile, ma che ogni minuto mi porti più lontano nella profondità del tuo Mistero».
Dunque ogni attività, ogni esperienza, ogni minuto che le viene donato è una chiamata, un possibilità per entrare sempre più in profondità nel mistero di Dio. La strada che le si apre davanti la conduce a scavare sempre di più, ad allargare gli spazi interiori dell’amore che si dona. E nello stesso tempo chiede di poter essere il cielo di Dio, la sua dimora, il luogo del suo riposo.
Quando nel testo francese si trovano il sostantivo demeure o il verbo demeurer, tali ricorrenze sottintendono la risonanza interiore di un testo evangelico, che la giovane monaca ha meditato e contemplato a lungo: le espressioni sul “rimanere” di Gv 15 (in francese il vangelo usa espressamente il verbo demeurer, “abitare”, “dimorare”, “rimanere”).
Elisabetta della Trinità vuole abitare costantemente questo santuario interiore, desidera renderlo una casa accogliente ed ospitale in cui il Dio uno e trino possa trovarsi a casa propria. In questo luogo interiore, in queste profondità del cuore, abitato dalla Presenza divina, è necessario rientrare costantemente per offrire il dono della propria compagnia ed amicizia: «che io non ti ci lasci mai solo, ma che sia là tutta intera».
Abitare questo tempio non significa semplicemente vivere con il pensiero e con la mente alla presenza di Dio, nel fondo della propria anima, ma anche lasciare che i movimenti del proprio cuore battano all’unisono con il cuore di Dio, uniformare la propria volontà alla sua volontà. La sua volontà è che rimaniamo profondamente uniti a Lui, che lo seguiamo con fedeltà. Paradossalmente, l’essere «immobile e quieta» non significa rimanere ferma, statica, ma in continua tensione, pronta a seguire ogni movimento di Dio. Dunque la preghiera non è un’esperienza alienante, ma un rimando ulteriore alla vita concreta, alla quotidianità, all’essere tutta intera nella volontà divina, là dove si trova il Figlio, che fa della volontà del Padre il suo nutrimento.

C’è poi un’espressione molto bella: «Tutta desta nella mia fede...» non nell’estasi del sentimento, ma nella fede pura. Anche questo è un tema ricorrente negli scritti di Elisabetta della Trinità.
Valga come esempio la lettera alla mamma dell’agosto 1905: «Credo che la carmelitana attinga [...] tutta la propria felicità a questa sorgente divina: la fede. Crede, come dice san Giovanni, “all’amore che Dio ha avuto per lei”. Crede che questo stesso amore l’ha attirato sulla terra... e nella propria anima, poiché Colui che si è chiamato la Verità ha detto nel Vangelo: “Rimanete [demeurez] in me, e io in voi”. Allora, molto semplicemente, obbedisce al comandamento così dolce e vive nell’intimità con il Dio che abita [demeure] in lei, che le è più presente di quanto ella lo sia a se stessa.

Tutto questo, mamma cara, non è sentimento o immaginazione, è fede pura».

Questa fede deve rimanere vigilante, attenta, desta; Elisabetta sa - come i discepoli nel Getsemani - di essere invitata dal Maestro a non lasciarsi vincere dal sonno. Sa che l’Amore la chiama continuamente a ridestarsi. Per questo chiede di poter essere sempre vigile, attenta, operosa nella propria fede, «tutta adorante, tutta abbandonata alla tua Azione creatrice». L’altro aspetto di questa unificazione e pacificazione interiore è costituito dal silenzio e dall’abbandono, cuore e fondamento della spiritualità carmelitana, come sottolinea ampiamente la Regola del Carmelo. Le espressioni finali di questo primo paragrafo chiedono appunto di poter essere aiutata a stabilirsi nel silenzio interiore e nell’abbandono fiducioso all’Amore che la chiama.

Il salmo 131 sintetizza questo atteggiamento di fiducia e di speranza, di silenzio interiore e di abbandono, con l’immagine del bambino pacificato che si addormenta in braccio alla madre.
Assumendo una espressione della stessa Elisabetta della Trinità, potremmo commentare la metafora del salmo dicendo che occorre essere così semplici con Dio: la semplicità dell’abbandono fiducioso, la semplicità di questo silenzio interiore, condizione fondamentale per poter vivere un’esperienza della Trinità.

 

 

O mio Cristo amato, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo Cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti... fino a morirne! Ma sento la mia impotenza e ti chiedo di "rivestirmi di te", di identificare la mia anima a tutti i movimenti della tua anima, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un'irradiazione della tua Vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore.

 

O mio Cristo amato,

crocifisso per amore

 

Il secondo paragrafo della preghiera è interamente costituito dalle invocazioni rivolte al Figlio, che è la porta, la via che conduce al Padre. La preghiera al Figlio è la prima e la più lunga di tutte le invocazioni personali, proprio perché l’esperienza della Trinità passa attraverso l’esperienza del rapporto sponsale con Cristo e della sua sequela.

Questo paragrafo conosce due momenti chiaramente distinti. Il primo è l’indirizzo a Cristo nella sua umanità, perché le espressioni iniziali sono rivolte al crocifisso per amore, dunque all’umanità (e all’umanità sofferente) del Figlio. La seconda parte presenta invece l’approccio alla sua divinità, quando non lo chiama più: o mio Cristo amato, crocifisso per amore, ma: o Verbo eterno, Parola del mio Dio.

Soffermiamoci sulle prime espressioni: o mio Cristo amato, crocifisso per amore... Non ci stupisce più di tanto che vengano usate simili espressioni. Se, però, le collochiamo nella spiritualità del tempo, quando un’idea teologica ricorrente è quella della giustizia retributiva, che fa del Figlio morto in croce per i peccati del mondo la vittima sacrificale per volere del Padre, ne apprezziamo maggiormente l’originalità. Nella predicazione del tempo ritorna costantemente questa idea fondamentale: Gesù è la vittima, e il Padre condanna il Figlio, facendogli scontare tutti i peccati e tutte le infedeltà degli uomini. La giovane Catez, soprattutto prima dell’ingresso al Carmelo di Digione, ha respirato molto questa visione, ma certi accenti che troviamo nei suoi scritti (ad esempio l’offerta di se stessa come vittima) si pongono piuttosto sul versante dell’amore che si dona, che si lascia consumare, e non in una logica strettamente retributiva. E’ dunque importante sottolineare l’accenno al Cristo crocifisso per amore (non per soddisfare e placare l’ira del Padre).

Elisabetta si lascia plasmare dal vangelo di Giovanni, che inizia tutto il racconto degli ultimi giorni di Gesù con queste parole: dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Crocifisso per amore significa che la volontà di Dio è prima di tutto una volontà di amore, e questo amore è donare se stessi, costi quello che costi.

Perché Elisabetta della Trinità si rivolge in questo modo al Figlio? La migliore risposta si può forse trovare nella lettera scritta il 7 agosto 1902 a Germana de Gemeaux: una carmelitana [...] è un’anima che ha guardato il Crocifisso, che l’ha visto offrirsi come Vittima a suo Padre per le anime e, raccogliendosi sotto questa grande visione della carità di Cristo, ha compreso la passione d’amore della sua anima, e ha voluto donarsi come Lui!... Dunque la carmelitana è prima di tutto una persona che “guarda il Crocifisso”, non una persona che fa, agisce, decide, ma una contemplativa, che vive in questo spazio di ascolto e di adorazione. In questa contemplazione del

Crocifisso, ciò che coglie è unicamente la grande carità di Cristo: comprende il dono d’amore, che sfocia nell’offerta sacrificale di sé come vittima. Comprende, anzi, la sua passione d’amore, l’amore eccessivo, troppo grande. Quando una persona vede e comprende la passione d’amore che risplende sul Volto di Cristo crocifisso, sente nascere in sé il desiderio di donarsi come lui.

 

I desideri grandi

di Elisabetta

 

Lo sguardo contemplativo sul Cristo crocifisso per amore fa nascere immediatamente nel cuore della carmelitana grandi desideri d’amore. Troviamo, infatti, un triplice vorrei: vorrei essere una sposa per il tuo Cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti... fino a rnorirne! Le tre ricorrenze dello stesso verbo manifestano l’intensità del desiderio, ma nello stesso tempo l’uso del condizionale lascia già trasparire che esiste un ostacolo, una fatica da affrontare. Teresa di Gesù invitava a nutrire grandi desideri. Teresa di Gesù Bambino parlava dei desideri immensi che abitavano il suo cuore, e che trovarono la loro sintesi unicamente nell’amore. Anche la carmelitana di Digione si presenta davanti al Cristo crocifisso con il cuore pieno di desideri. Li esprime apertamente, ne parla con Gesù.

Il terzo desiderio, il terzo vorrei esprime la volontà di amare Gesù fino a morirne; in un certo senso, sintetizza i due elementi precedenti, perché la morte a se stessa, richiesta fin dal primo paragrafo (la capacità di dimenticarsi, di uscire da sé, di lasciare spazio a Dio affinché abiti in lei), diviene il dono d’amore e la glorificazione del Figlio. Come può essere lode di gloria?

Morendo a se stessa, lasciando spazio a Dio perché abiti in lei. Del resto, nella lettera 169 (del 15 luglio 1903) la carmelitana francese confessa la propria grande devozione all’inno liturgico della festa di Teresa d’Avila: “O charitatis victima” (“o vittima d’amore”); probabilmente lo ha meditato a lungo.

Conosce anche l’Atto di offerta all’Amore misericordioso di Teresa di Gesù Bambino, che usa espressioni molto simili, e ripete spesso - come nel finale dell’Elevazione - la propria ambizione ad essere “preda” dell’amore, a lasciarsi consumare dall’amore, a “morire per amore”.

 

La coscienza della

propria povertà

 

Il triplice desiderio è essenziale, va al cuore della sua vocazione e della sua identità di carmelitana. Immediatamente dopo appare un ostacolo. Non dobbiamo mai sradicare l’esperienza e la dottrina dei santi da quello che è il loro cammino quotidiano, la fatica della loro crescita. L’espressione seguente (... ma sento la mia impotenza) è la testimonianza chiara di tutto il cammino compiuto ancor prima di entrare al Carmelo, e di tutto quello conseguente... Ma sento la mia impotenza, il mio nulla, la mia fatica: è bello che ci sia questa spia proprio nel cuore dell’Elevazione, una delle preghiere più alte della mistica cristiana. I santi e i mistici si distinguono non per il fatto di non sperimentare la povertà o la fatica della loro umanità, ma piuttosto per la fiducia che impedisce loro di scoraggiarsi della propria povertà e del proprio limite. In una lettera di pochi giorni posteriore alla composizione di questa preghiera, Elisabetta confessa: non posso dirle quale pace dia alla mia anima pensare che Egli supplisce alle mie impotenze e che, se cado ad ogni istante che passa, Egli è lì per rialzarmi (eco di una poesia di Teresina) e portarmi più profondamente in Lui.

Sperimenta ad ogni istante il peso, la fatica della propria povertà, ma trova grande pace e serenità interiore nel pensare che Dio stesso supplisce a tutte le sue impotenze.

La santa di Lisieux esprimeva in questo modo la coscienza della propria povertà e la preghiera conseguente: desidero essere Santa, ma sento la mia impotenza e ti chiedo, o mio Dio! di essere tu stesso la mia Santità.

“Sii tu stesso la mia santità”: la via d’uscita di Teresa di Gesù Bambino consiste nell’aggrapparsi con fiducia a quella forza, a quella luce, a quell’amore che le possono venire solo dall’alto. Lo stesso movimento è presente nell’Elevazione, per cui è naturale che dall’espressione dei desideri si passi ora alla domanda, alla preghiera. Se prima avevamo trovato un triplice vorrei, ora - di fronte all’esperienza della propria povertà - abbiamo una richiesta rivolta al Figlio: ti chiedo di “rivestirmi di te stesso”. Davanti all’esperienza della povertà e del limite non c’è atto di volontà che valga: l’unica strada è lasciare spazio all’invocazione, alla preghiera. Nel sottofondo, l’Elevazione alla Trinità - oltre che essere una pagina e una testimonianza di vita spirituale altissima - è anche una scuola di vita spirituale, un cammino di preghiera e di scoperta di se stessi e del proprio rapporto sponsale con Dio.

 

Rivestirsi di Cristo

 

...Ti domando di “rivestirmi di te stesso”... La richiesta, rivolta al Figlio, è tipicamente paolina. Basta leggere — per rendersene conto — qualche breve testo dell’epistolario paolino: Rivestitevi [...] del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri; tutti voi [...] siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Nella spiritualità trinitaria di Elisabetta, è molto presente questa insistenza paolina sul tema del battesimo: tutta la vita spirituale è concepita come un lasciar crescere, approfondire, vivere la grazia e la consacrazione battesimale. Sradicata da questo centro e da questo fondamento, la sua spiritualità rischierebbe di diventare qualcosa di alienante, che distoglie dal vero centro della vita cristiana.

Nell’antichità il vestito non era qualcosa che si potesse indossare e cambiare a piacimento, o che mutasse secondo le mode, ma era piuttosto il contrassegno distintivo dell’identità e della dignità di una persona. Quando la Bibbia - il Nuovo Testamento in modo particolare - usa questa metafora (l’invito, per esempio, a rivestirsi del Signore Gesù, oppure di sentimenti di misericordia, di mansuetudine, di mitezza...), non sta parlando di qualcosa di esteriore, ma vuole indicare una trasformazione intima e profonda della persona. La richiesta rivolta al Figlio riguarda, dunque, la sfera dell’essere più che quella dell’apparire, mentre nella nostra cultura l’immagine del vestito richiama piuttosto ciò che si vede, ciò che si può cambiare, che segue i gusti e le mode, l’apparenza piuttosto che l’interiorità.

... Ti chiedo di “rivestirmi di te stesso”: non è che un altro modo di ribadire l’esigenza di morire a se stessa: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.

Elisabetta prega ancora dicendo: (ti chiedo) di identificare la mia anima a tutti i movimenti della tua anima. Anche questa preghiera si illumina mediante il ricorso ad un celebre testo dell’epistolario paolino: abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Il testo greco della lettera non parla tanto dei “sentimenti” di Cristo, ma usa il verbo phronéo, che indica la ricerca, i pensieri, i desideri, la mentalità, il modo di pensare orientato al comportamento e all’azione. Paolo sta chiedendo ai Filippesi di pensare, giudicare, valutare, discernere come Cristo, in modo da poter agire come lui. Il primo paragrafo dell’Elevazione chiedeva di pacificare tutti i moti interiori, tutti quei movimenti disordinati che potrebbero turbare il silenzio e il nascondimento, l’unità interiore della persona. Ora il secondo paragrafo chiede che tutti i movimenti, tutti i pensieri, i desideri, le preoccupazioni siano gli stessi pensieri, gli stessi desideri e le stesse preoccupazioni di Cristo.

 

Vieni in me

 

La conseguenza logica di questa domanda è l’invocazione seguente: vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore, che conclude la prima parte del paragrafo. Si chiede a Cristo di portare a compimento la sua opera di assimilazione e di trasfigurazione; dunque: vieni in me... E’ un’invocazione d’Avvento, è il Maranathà che la Chiesa pronuncia nelle settimane precedenti il Natale: vieni, Signore Gesù! E il canto della sposa dell’Apocalisse.

La missione del Cristo viene presentata con una triplice funzione (è ancora una volta un simbolismo “trinitario” ad informare il testo dell’Elevazione): come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore.

Come Adoratore, perché il Padre cerca tali adoratori. Per Elisabetta è essenziale vivere di adorazione, e l’unico, vero Adoratore del Padre è Cristo. Dunque il suo proposito fondamentale è lasciare spazio a Cristo, perché adori in lei il Padre. Essere informata da tutti i sentimenti, tutti i movimenti di Cristo, tutti i desideri di Cristo significa — in questo nuovo contesto — essere immersa nella preghiera incessante che il Figlio rivolge al Padre. Come Riparatore...: questo è un certo debito pagato alla spiritualità del suo tempo, senza nulla togliere alla radicalità del suo offrirsi vittima d’amore. Dobbiamo però capire bene questo concetto di riparazione, in quanto obbedienza e amore filiale, in luogo dell’infedeltà degli uomini. Dunque “riparazione” significa che il Figlio si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce, e che egli, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. L’invocazione riguarda una presenza obbediente d’amore, che spinge al dono di se stessi. E ancora: (vieni in me) come Salvatore.

Riconoscere ed esprimere questa necessità di essere salvati è uno dei principali criteri della verità di un’esperienza spirituale. Il fariseo ritiene di non aver bisogno di salvezza, non si guarda con verità, non invoca un Salvatore, non chiede perdono. Il Figlio è venuto appunto per i peccatori, non per i giusti che non hanno bisogno di salvezza e di conversione. (Vieni in me) come Salvatore è un nuovo sguardo alla propria povertà, la verità del proprio peccato, che grida il desiderio di essere guarita, di essere salvata.

Nello stesso tempo, è la parola della fede, che sa di non potersi dare da se stessa la salvezza, la pace, la felicità.

 

 

O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio farmi tutta ammaestrabile, per imparare tutto da te. Poi, attraverso tutte le notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze, voglio fissarti sempre e rimanere sotto la tua grande luce; o mio Astro amato, affascinami perché io non possa più uscire dalla tua irradiazione.

 

O Verbo eterno,

Parola del mio Dio

 

La prima parte dell’invocazione al Figlio è rivolta soprattutto all’umanità di Gesù, e vi emerge un grande desiderio di vivere e di morire d’amore. Gesù stesso è il Crocifisso per amore, Elisabetta vorrebbe amarlo «fino a morirne...» Non sono espressioni casuali, perché nel questionario compilato dalla giovane postulante pochi giorni dopo l’ingresso al Carmelo, nell’estate del 1901, questo era già il suo programma di vita. Il suo ideale di santità era vivere d’amore; la santa preferita, Teresa d’Avila, perché morì d’amore. Alla domanda sulle disposizioni che avrebbe desiderato per il momento della morte, rispondeva: vorrei morire amando, e cadere così nelle braccia di Colui che amo.

La seconda parte dell’invocazione si rivolge piuttosto alla divinità del Figlio, contemplato in modo giovanneo come Verbo di Dio: «o Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio farmi tutta ammaestrabile, per imparare tutto da te [...] voglio fissarti sempre...» Una particolarità da sottolineare immediatamente in queste espressioni è la triplice ricorrenza del verbo «voglio» (all’inizio dell’invocazione notavamo un triplice «vorrei», rivolto al Figlio, espressione della pienezza di un desiderio).

Il desiderio espresso al condizionale doveva misurarsi con l’esperienza della povertà, dell’impotenza, del limite, per cui Elisabetta invocava l’aiuto del Verbo. Dopo la preghiera non c’è più spazio per il desiderio (vorrei...), ma piuttosto per una volontà ferma e decisa: «voglio»!

È come se, dopo aver semplicemente invocato la grazia che può venire soltanto da Dio, il desiderio

fosse confermato e la volontà fosse fortificata per raggiungere quell’ideale che già prima sentiva dentro di sé. Il triplice «voglio» - per usare una locuzione teresiana - è l’espressione di una «determinata determinazione».

Conosciamo Elisabetta come una creatura profondamente volitiva, tenace, a volte testarda fino all’inverosimile, per cui dovette lavorare molto su se stessa negli anni dell’adolescenza e della giovinezza, proprio per limare queste asperità del carattere. D’altro canto, questa volontà ferma e decisa le è servita anche in positivo, perché traspare in tutto il suo itinerario spirituale questa coerenza costante, questa forte determinazione: una volta scoperta una strada, la segue senza ripensamenti; dopo che si è sentita chiamata a un compito, ad una missione la abbraccia fino in fondo, vive d’amore fino a morirne.

 

Una vita in ascolto

 

La prima realtà che vuole mettere in pratica nella sua vita di carmelitana è l’ascolto: voglio passare la mia vita ad ascoltarti. In certe lettere, che risentono in parte della predicazione del p. Vallée, non parla semplicemente della necessità di ascoltare Dio che parla, ma della “passione di ascoltare”: non ha questa passione di ascoltarla [la parola del Verbo Incarnato]?... che la nostra vita scorra in Lui [...], che sia veramente la nostra dimora sulla terra. Lì, facciamoci silenziose per ascoltare Colui che ha tanto da dirci, e poiché anche lei ha questa passione di ascoltarlo, ci ritroveremo vicino a Lui per sentire tutto ciò che si canta nella sua anima! ... Si tratta di vivere la vita cristiana (i due destinatari non sono carmelitani) con questa passione profonda nel cuore: mettersi in un atteggiamento umile e docile di ascolto, rimanere ai piedi del Maestro e ascoltare la sua parola.

Ritorna poi, in questo passaggio sull’ascolto, qualche espressione di totalità: «voglio farmi tutta ammaestrabile, per imparare tutto da te ». «Essere tutta ammaestrabile” (tout écoutante, scriveva invece nel 1902) rende bene la terminologia della Bibbia latina docibiles Dei ; alcuni testi profetici, in particolare, prefigurano un’era escatologica, in cui tutti saranno ammaestrati da Dio. Elisabetta vuole essere così: terra vergine, argilla nelle mani del vasaio; vuole lasciarsi plasmare completamente per imparare tutto dal Cristo, Verbo eterno, Parola del suo Dio. Ci sarebbe molto da dire sul rapporto di Elisabetta con la Parola di Dio. Ha vissuto sicuramente un cammino quotidiano e fedele di lectio divina, non in modo razionale, ma contemplativo e orante. Si è lasciata ammaestrare dalla Parola di Dio, anche se certe scoperte nascono in lei prima di incontrare la conferma definitiva nella Scrittura. Le Lettere, gli ultimi ritiri, alcune Note intime sono intessuti di citazioni della Parola di Dio. Alcune volte l’ha attinta dalla predicazione che ha ascoltato, altre volte dalle opere che ha letto, molte volte dalla liturgia, spesso dal contatto diretto, soprattutto con le lettere di Paolo. «Voglio passare la mia vita ad ascoltarti », «voglio farmi tutta ammaestrabile», significa concretamente il desiderio di compiere questo cammino quotidiano di lectio divina nell’ascolto orante della Parola, cogliendo che il centro della Regola carmelitana è proprio nel meditare giorno e notte la legge del Signore.

«Voglio passare la mia vita ad ascoltarti» è un proposito di vita, non semplicemente un impegno a breve termine. Lo possiamo comprendere meglio scoprendo il proposito fatto da Elisabetta al termine degli esercizi spirituali, conclusi la mattina del 21 novembre 1904: «voglio passare la mia vita a guardar vivere il mio Dio». Un proposito orientato non a qualche virtù specifica, ma al fondamento stesso della vita spirituale: non è altro che una sfumatura contemplativa del proposito contenuto nell’Elevazione «voglio passare la mia vita ad ascoltarti». L’ascolto è il confronto umile con il modo di sentire e di agire di Gesù, con il suo comportamento, con i valori che egli mette al centro della propria vita. «Guardar vivere il mio Dio» è fare di questo ascolto uno sguardo contemplativo che impara tutto da lui, non semplicemente assumendo la parola come qualcosa di esteriore che indica un cammino: essa è l’unica strada, l’unica luce, l’unico mezzo che mette in rapporto diretto con Dio, con lo sguardo fisso in lui. Ascoltare è anche vedere e contemplare.

 

Lo sguardo della fede

 

Insieme all’ascolto assume grande rilievo, infatti, anche lo sguardo: «attraverso tutte le notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze, voglio fissarti sempre e rimanere [demeurer] sotto la tua grande luce... ». Nulla di estatico, dunque, o di sentimentalistico in questo fissare continuamente la luce dell’Astro amato; nulla di intimistico o di alienante in questo passare la vita a guardar vivere il suo Dio. Il testo citato rinvia piuttosto alla vita concreta, e in particolare a quella “notte oscura”, che Elisabetta della Trinità ha già conosciuto nel periodo del noviziato, e che sarà chiamata ad attraversare in modo più radicale nel periodo della sofferenza, della malattia, negli ultimi mesi della sua vita terrena. Il riferimento alle notti, ai vuoti, alle impotenze assume così il realismo dell’esperienza:

quanti periodi di oscurità e di fatica prima di entrare al Carmelo, e poi lungo il noviziato, fino alla professione. Fra le tante confessioni, scegliamo un piccolo brano datato 8maggio 1901: «non è più un velo ma un muro molto spesso che me lo [l’Amato] nasconde. È ben duro [...], dopo averlo sentito così vicino, ma sono pronta a rimanere [demeurer] in questo stato d’animo quanto a lungo piacerà al mio Amato di lasciarmici, perché la fede mi dice che comunque Egli è qui, e a che pro le dolcezze, le consolazioni? Non sono Lui. Ed è Lui solo che cerchiamo [...] Andiamo dunque a Lui per mezzo della fede pura».

Vive la stessa preparazione immediata alla professione al colmo dell’angoscia, al punto che la priora è preoccupata di vederla professare in quello stato, e la vigilia di quel giorno scrive un biglietto a suor Maria della Trinità per chiederle la carità di una preghiera. Nell’imminenza della morte - secondo i ricordi raccolti - rimarrà ancora nella fede pura, senza molte consolazioni, senza molte certezze, sebbene la sua esperienza sia profondamente diversa da quella di Teresa di Gesù Bambino. Pertanto, quando si legge nell’Elevazione: «attraverso tutte le notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze...», è importante capire che non si tratta di belle parole scritte a tavolino, ma della risonanza di un’esperienza.

In questa notte oscura, in questi momenti di prova, che cosa chiede allo Sposo, a Gesù? Chiede soprattutto di fissarlo sempre. Il verbo «fissare» richiama - ancora una volta - l’importanza dello sguardo per Elisabetta della Trinità, che in una lettera dell’agosto 1903 usava già espressioni simili: «Egli è in me, io sono in Lui, non ho che da amarlo, da lasciarmi amare, e questo tutto il tempo, attraverso tutte le cose: svegliarsi nell’Amore, muoversi nell’Amore, addormentarsi nell’Amore, l’anima nella sua Anima, il cuore nel suo Cuore, gli occhi nei suoi occhi, affinché con il suo contatto mi purifichi, mi liberi dalla mia miseria». Nell’esperienza di povertà, attraverso tutte le impotenze - il testo dell’Elevazione aveva già parlato precedentemente di «impotenza» - si riafferma imperiosa la necessità di alzare lo sguardo e di tenere gli occhi fissi sull’Amato, nella fede pura.

 

Affascinami

 

Il testo prosegue: «voglio fissarti sempre e rimanere [si potrebbe tradurre anche con: dimorare, o: abitare] sotto la tua grande luce; o mio Astro amato, affascinami perché io non possa più uscire dalla tua irradiazione». Anche il simbolo della luce è fondamentale nella sua spiritualità, ed è importante che la preghiera rivolta al Figlio si concluda proprio con questa invocazione particolare: affascinami, «aiutami a non uscire più dalla tua luce, ad abitare in questa grande luce».

L’espressione corregge in parte l’impressione di eccessivo volontarismo che poteva essere suggerita dal triplice voglio. In questa nuova preghiera ritorna quell’atteggiamento di “passività attiva” - se così possiamo chiamarla - che è l’essenziale della spiritualità carmelitana. Non è nell’atto di volontà che si può incontrare Dio, ma piuttosto nel saper ascoltare, nel lasciarsi fare, plasmare e condurre docilmente da Dio. «Affascinami» significa la necessità di lasciarsi illuminare, trafiggere dalla luce: «santa Teresa dice che l’anima è come un cristallo nel quale si riflette la Divinità. Mi piace tanto questo paragone, e quando vedo il sole invadere i nostri chiostri con i suoi raggi, penso che Dio invade così l’anima che non cerca che Lui!».

L’immagine del Verbo di Dio come «Astro» - dovuta all’influsso di Teresa di Gesù Bambino - evoca vita e luce, ma anche distanza, inaccessibilità e mistero, ricreando un’atmosfera quasi “notturna”. Nel contesto prossimo, non si abbandona dunque il riferimento all’esperienza della notte oscura, come se subentrasse il desiderio di fuggire o di uscire quanto prima possibile dal momento di prova e di difficoltà, in cui lo Sposo la vuole lasciare. L’intenzione dell’autrice è piuttosto il desiderio di ricuperare - rimanendo nella notte - il senso e la fiducia, lo sguardo fisso sulla luce di quell’Astro che, solo, può illuminare la sua notte.

«Affascinami» significa anche che ha compreso molto bene una verità evangelica fondamentale: «il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo». Prima viene la scoperta del tesoro nascosto, della perla preziosa, e solo di conseguenza viene l’atto di volontà, l’azione, il rinnegamento di sé. In questa invocazione «affascinami» sono già contenute tutte le altre richieste che l’autrice potrebbe rivolgere al Verbo di Dio: se si lascia affascinare, sedurre, conquistare dalla sua luce e dal suo amore, tutto il resto verrà di conseguenza; quindi la preghiera deve tendere verso questa essenzialità, non deve disperdersi chiedendo cose secondarie, ma fissarsi su ciò che è fondamentale nella vita dello spirito. «Affascinami» significa: “seducimi”, “conquistami”, “fammi percepire il grande amore con il quale mi hai amato”. Concludiamo la meditazione sulla preghiera rivolta al Figlio con alcune espressioni di una lettera (del 4 gennaio 1904), in cui appaiono le stesse immagini, le stesse metafore, sempre in un contesto di notte, di fatica, di desolazione: «se guardo dal lato della terra vedo la solitudine e anche il vuoto, perché non posso dire che il mio cuore non abbia sofferto (è un eufemismo!); ma se il mio sguardo resta sempre fisso su di Lui, il mio Astro luminoso, oh, allora tutto il resto scompare e mi perdo in Lui come la goccia d’acqua nell’Oceano». In fondo la questione è sempre la stessa: o ci si lascia prendere in modo assoluto da ciò che è relativo, oppure si impara a fissare lo sguardo su ciò che è davvero assoluto; allora si cominciano a vedere le cose dal punto di vista di Dio e si mantiene lo sguardo fisso su di lui. Non ci sono mezze misure: nel primo caso si è preda dello scoraggiamento, nel secondo caso si è «preda di Dio», come dirà più avanti l’Elevazione.

 

 

«O Fuoco consumante, Spirito d’amore, “scendi su di me”, affinché si faccia nella mia anima come un’incarnazione del Verbo: che io sia per Lui una umanità aggiunta nella quale Egli rinnovi tutto il suo Mistero. E Tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola creatura, "coprila con la tua ombra", non vedere in lei che il "Prediletto nel quale hai posto tutte le tue compiacenze"».

 

O Fuoco

consumante

 

Passando dall’invocazione al Figlio a quelle rivolte alle altre due Persone della Trinità, non si può fare a meno di notare due particolarità. Innanzitutto, le altre due preghiere (allo Spirito e al Padre) diventano molto più brevi  rispetto alla prima e molto più essenziali nella formulazione delle richieste.

C’è una sproporzione enorme fra il modo con cui ci si rivolge a Cristo nella sua umanità e nella sua divinità, e il modo con cui ci si rivolge allo Spirito Santo e al Padre. Allo Spirito e a Dio Padre, Elisabetta chiede semplicemente che compiano la loro missione,  andando direttamente all’essenziale. Allo Spirito chiede di realizzare in lei una nuova incarnazione; al Padre chiede semplicemente di amarla, di esserle Padre.

La differenza fondamentale è che nel dialogo con Cristo, con il Verbo di Dio fatto carne, lasciava spazio a tutti i suoi desideri, a tutta la sua volontà, ai suoi propositi, ad altre richieste, in una dimensione di sponsalità. In un certo senso, nel rapporto con Cristo traspariva un’effusione del cuore della carmelitana, che si manifestava pienamente allo Sposo, con immediatezza e semplicità di linguaggio, senza nascondere la propria povertà,  soffermandosi a lungo su quanto accade nel suo cuore. Con lo Spirito e con il Padre il linguaggio diviene scarno, essenziale.

La seconda particolarità - evidente anche ad una lettura superficiale - è che, a partire dal dialogo con lo Spirito e poi nella richiesta rivolta al Padre, il linguaggio tende a diventare mariano. In fondo, nel modo con cui Elisabetta della Trinità si rivolge alle altre due Persone divine non c’è altro che questa necessità primaria del cammino spirituale, questo desiderio vivissimo: essere Maria, diventare Maria, lasciarsi plasmare e attirare come Maria.

Lo Spirito Santo viene invocato come « Fuoco consumante » (« fuoco divorante », si traduce talvolta, ma il verbo « consumare » è più aderente al testo originale francese). È un’immagine che la giovane mistica attinge dalla lettera agli Ebrei: « Il nostro Dio è un fuoco divoratore (Deus noster ignis consumens est, nella Bibbia latina) ». A sua volta, il Nuovo Testamento riprende questa metafora dal libro del Deuteronomio: « il Signore tuo Dio è fuoco divoratore (ignis consumens), un Dio geloso. Il testo ebraico del Deuteronomio – ricorrendo al participio del verbo ’kl (« mangiare ») – presenta espressamente l’immagine di un fuoco che « divora », che « mangia », così come il fuoco si impossessa del legno, lo brucia poco a poco, lo consuma, lo distrugge.

Nell’immaginario di Elisabetta, però, parlare di fuoco consumante, al di là di tutte le risonanze simboliche che il fuoco può evocare, esprime alcune realtà fondamentali del rapporto con Dio. Lo Spirito di Dio, Dio stesso è un fuoco che consuma; lo scrive a volte all’inizio delle sue lettere, soprattutto negli ultimi mesi di vita, quando è consumata dalla malattia, lo medita negli ultimi ritiri: Deus ignis consumens.

Che cosa significa parlare di “consumazione”? Vuol dire parlare della realtà dell’amore che, a poco a poco, goccia dopo goccia, annienta, brucia tutte le energie. Elisabetta arriverà lentamente a capire, attraverso l’esperienza delle varie notti, che la sofferenza stessa è l’amore in atto, l’amore che consuma, l’amore che la assorbe tutta. Quante volte ha rinnovato nel corso dell’Elevazione la volontà di essere tutta intera nell’abitazione interiore! Nel mistero della sofferenza, quando la sofferenza è vissuta nell’amore e per amore, questo proposito diviene realtà: si attua allora il mistero dell’amore che consuma. Il verbo « consumare », però, allude anche al compimento e alla realizzazione: significa anche portare a compimento una determinata realtà. E nel linguaggio sponsale, che – come si è visto – non è affatto estraneo alla nostra preghiera, « consumare »  significa vivere la pienezza dell’unione, nell’intimità del dono reciproco. Permane, allora, un’ambiguità di fondo, una ricchezza semantica, nell’attribuire allo Spirito l’immagine del fuoco che consuma. Nello Spirito che aiuta a vivere  la sofferenza per amore, si consuma anche l’unione d’amore tra lo Sposo e la sposa. Il fuoco consumante evoca l’idea di perfezione, di purificazione, di sofferenza, di compimento e di intimità sponsale.

 

Una nuova

 incarnazione

 

Allo Spirito Santo l’orante chiede di scendere su di lei; l’espressione, nel testo autografo, è posta tra virgolette, indicando che si tratta di una citazione. Il riferimento evidente è al brano evangelico dell’annunciazione: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio ». Le virgolette indicano chiaramente che Elisabetta della Trinità sta chiedendo per se stessa ciò che lo Spirito ha realizzato fisicamente e storicamente in Maria. Il padre domenicano Fages, nel corso degli esercizi spirituali conclusi la mattina del 21 novembre 1904, aveva ribadito più volte alle monache di Digione l’invito ad invocare la discesa dello Spirito Santo su di loro, a chiedere la stessa grazia che lo Spirito riservò a Maria Vergine nell’evento dell’Incarnazione.

Si tratta, indubbiamente, di una preghiera ardita e coraggiosa. D’altra parte, anche per Maria non si trattava semplicemente di un fatto biologico (concepire la carne del Verbo). Sant’Agostino afferma che la vera grandezza di Maria non consiste tanto nell’aver generato fisicamente il Verbo fatto carne, quanto nell’aver accolto in sé spiritualmente il Verbo, cioè la Parola di Dio, e nell’averla custodita, nell’averne fatto motivo di meditazione, di preghiera e di contemplazione. Elisabetta della Trinità vede appunto Maria come l’arca della nuova alleanza, il tempio della Presenza; c’è una sintonia profonda tra ciò che percepisce della propria vocazione specifica (essere « casa di Dio ») e ciò che è accaduto nel cuore e nel grembo di Maria.

Non è pertanto possibile interpretare questa preghiera come un vago sentimento o come un estraniarsi dalla propria realtà: in Maria vede il suo stesso ideale di vita, la piena « consumazione », l’icona perfetta di ciò che è chiamata a realizzare nel progetto di Dio su di lei. Non ha nessuna remora a scrivere, immediatamente dopo: « Si faccia nella mia anima come un’incarnazione del verbo ».

E' precisamente l’invito del p. Fages, il riferimento diretto al mistero dell’Incarnazione. Non è dunque un accento del tutto originale di Elisabetta della Trinità; la sua espressione più caratteristica, invece, è il seguito di questa invocazione: «... che io sia per Lui un’umanità aggiunta (o: un « sovrappiù » di umanità) in cui Egli rinnovi tutto il suo Mistero ».

« Un’umanità aggiunta » (« de surcroît », dice alla lettera il testo francese): un sovrappiù di umanità, un prolungamento dell’umanità di Cristo. L’orante si pone in questa prospettiva: « Io stessa sono chiamata a dare mani, cuore, piedi, mente al Verbo fatto carne perché possa prolungare in me tutto il suo Mistero ». L’espressione francese (« de surcroît ») suggerisce l’idea di una crescita rispetto all’Incarnazione di Cristo, di un “di più”: la carmelitana è chiamata ad offrire la sua partecipazione personale affinché il progetto del Padre nell’Incarnazione arrivi al suo compimento e alla sua piena realizzazione.

Tra le righe riconosciamo tutta una serie di reminiscenze paoline; in modo particolare — sulla scia di quanto si è detto in precedenza — bisogna pensare a questo “sovrappiù” di umanità come un mistero di passione, di sofferenza nell’amore che consuma. Qui Elisabetta vive e approfondisce la celebre espressione della lettera ai Colossesi: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa ».

Questo testo le sarà particolarmente caro nel periodo della malattia, quando confessa una gioia profonda nel pensarsi scelta da Dio per essere in comunione con la passione di Cristo: si sente infatti chiamata a sostituirlo, dal momento che egli è tornato al Padre. Alla signora Hallo scrive nel gennaio 1906, dopo aver citato Col 1,24: « Anche lei è per Lui in qualche modo un’umanità aggiunta (une humanité de surcroît) in cui Gli permette di soffrire come un’estensione della sua passione (applicherà anche a se stessa questa espressione - nda), perché i suoi dolori sono veramente soprannaturali ».

« Fuoco consumante »: lo Spirito le permette di completare nella propria carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo, di essere per lui un’umanità aggiunta, un sovrappiù di umanità, un’estensione della sua passione. L'espressione paolina è da comprendere correttamente: che cosa manca alle sofferenze di Cristo? Di per sé nulla: è Cristo l’unico Salvatore, l’unico Redentore; la sua sofferenza e la sua croce, abbracciata per amore, hanno una dimensione salvifica universale. Egli è stato crocifisso, è morto e risorto per i nostri peccati, per la salvezza di tutta l’umanità.

Che cosa manca, allora? Manca semplicemente il sì della creatura, la sua partecipazione, la volontà di lasciarsi inserire in questa scia di salvezza, il suo entrare in modo pieno, totale nell’umanità - e nell’umanità sofferente - del Verbo. Nel contesto della lettera ai Colossesi, il riferimento a quello che manca è semplicemente relativo ad una espressione opposta di sovrabbondanza e di compimento: la grazia dell’umanità e della passione di Cristo è così traboccante, così sovrabbondante che, se la creatura si lascia inserire in questo mistero di salvezza, può partecipare con lui alla redenzione del mondo.

 

La preghiera

rinnovata

 

Pochi giorni dopo aver composto l’Elevazione alla Trinità, la carmelitana francese confida al chierico Chevignard, commentando il passo di Gal 2,2O («Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»): «E’ questo il sogno della mia anima di carmelitana, è anche - credo - quello della sua anima sacerdotale, è soprattutto quello di Cristo, ed io Gli chiedo di realizzarlo pienamente nelle nostre anime; cerchiamo di essere per Lui in qualche modo un’umanità aggiunta [une humanité de surcroît] in cui Egli possa rinnovare tutto il suo Mistero». Elisabetta ha capito - attraverso le espressioni di Paolo - che alle sofferenze di Cristo manca l’adesione della creatura, il sì generoso e fedele, come fu il sì di Maria. Non si tratta semplicemente di prendere su di sé il dolore di Cristo o le sue sofferenze, ma di prendere su di sé la carità di Cristo; se il suo desiderio è di abitare in modo permanente nella luce dell’Astro amato, ora è il momento - lo chiede allo Spirito Santo - di lasciarsi trafiggere dalla luce e dalla carità di Cristo. Anche nella lettera agli Efesini, così cara all’autrice dell’Elevazione, c’è un passo che potrebbe aver avuto un influsso remoto su queste invocazioni allo Spirito Santo. Parlando della diversità dei ministeri, dei carismi, dei doni dello Spirito, Paolo scrive che la distribuzione dei carismi è avvenuta «per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo». È il Cristo totale che deve realizzarsi, è la piena maturità di Cristo che deve compiersi nel cuore del credente.

Questa immagine di perfezione non va intesa in senso ascetico, ma come la conseguenza logica di una preghiera essenziale: «affascinami» «attirami», «inseriscimi nel mistero della tua carità», fino a prendere su di sé e rivivere tutti i «sentimenti che furono in Cristo Gesù». La mèta è proprio questa: arrivare alla pienezza del Cristo. L’Incarnazione storica è stata - ci sia consentita l’espressione - limitata nello spazio e nel tempo: ha raggiunto poche persone, ha toccato solo le strade della Palestina di un periodo storico particolare. Il limite spazio-temporale dell’Incarnazione storica può essere superato soltanto dal sì della creatura, dall’adesione e dalla partecipazione piena, dalla «consumazione» di questo mistero nel cuore e nella vita del credente.

La realtà più bella, però, sta nel fatto che queste espressioni non vengono scritte soltanto il 21 novembre 1904, dopo una giornata di adorazione, ma vengono ripetute nel momento della malattia, nel mese di settembre del 1906: «La sposa è dello Sposo, il mio mi ha presa, vuole che sia per Lui un’umanità aggiunta [une humanité de surcroît] in cui Egli possa ancora soffrire per la gloria di suo Padre, per venire in aiuto alle necessità della sua Chiesa; questo pensiero mi fa tanto bene...». Qui non c’è più possibilità di fraintendimento; questo pensiero che le «fa tanto bene», la aiuta non solo a superare la fatica della croce e della sofferenza, ma anche a trovare il vero senso di questa sofferenza e a viverla in pienezza, senza riserve, quasi a gustarla in profondità.

Sono espressioni che ricordano molto da vicino non solo la spiritualità mariana, ma anche il mistero eucaristico e la presenza reale. Si parla di incarnazione, e non di semplice sequela o imitazione di Cristo. Nella sequela o nell’imitazione si mette l’accento sulla creatura, che compie lo sforzo di rivivere in sé gli atteggiamenti di Cristo. Parlando, invece, di incarnazione si evidenzia l’aspetto passivo: il Cristo che riveste di se stesso la creatura, lo Spirito che agisce nel cuore del credente. È una dimensione più mistica che ascetica, in cui la componente ascetica è fortissima e non va disattesa, ma non è vista come il fondamento, non è la strada che permette di arrivare a Dio. Noi parliamo - a proposito dell’Eucaristia - di “presenza reale”, non perché non esistano altre modalità di presenza ugualmente reale, ma perché l’Eucaristia è la presenza reale per antonomasia. La spiritualità trinitaria di Elisabetta della Trinità ci ricorda che anche l’inabitazione, il lavoro della grazia in noi, l’opera dello Spirito Santo sono altrettante forme di “presenza reale”. Il credente si comprende allora come un’eucaristia vivente, un tabernacolo vivente.

Non ci si deve poi lasciar ingannare dall’espressione: «Si faccia nella mia anima come un’incarnazione del Verbo». Chi scrive è profondamente figlia del suo tempo, ma «nella mia anima» significa: “nel più profondo di me stessa”, “nel mio centro”. Un orientale o un semita direbbero piuttosto: “nel mio cuore”. Non è un riferimento a certi momenti o a certi stati d’animo, ma piuttosto al centro vitale della persona, in cui tutta la vita, tutte le facoltà, tutte le potenze sono inglobate. C’è tuttavia una sua bellissima espressione, che può servire come complemento di quanto intendiamo affermare. Scrivendo verso la fine di novembre del 1905 ad André Chevignard, dà una sua particolare definizione del tempo liturgico d’Avvento: «Mi sembra che sia in modo del tutto speciale quello [=il tempo] delle anime interiori, di quelle che vivono senza sosta e attraverso tutto “nascoste in Dio con Gesù Cristo” al centro di se stesse». «Nella mia anima» si riferisce appunto a questo rientrare in sé, vivere nelle profondità interiori - “al centro di se stessi” - dove la vita è unificata. Un’altra espressione da sottolineare nell’invocazione allo Spirito Santo è il verbo «rinnovare»: «Che io sia per Lui un’umanità aggiunta in cui Egli rinnovi tutto il suo Mistero». Se è tutto il mistero di Cristo che si deve incarnare nella creatura, questo mistero dev’essere costantemente rinnovato: c’è un senso di freschezza, di giovinezza, di novità continua in questa operazione che lo Spirito va compiendo nella sua anima. Ad ogni istante, non si tratta di ripetere, ma di ricominciare, con quella gioia, con quella novità e con quell’abbandono assoluto che lo Spirito stesso suscita nel cuore della creatura.

 

E tu, o Padre...

 

Passiamo così all’invocazione al Padre: «E tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola creatura...» (sono espressioni che risentono dell’influsso di Teresa di Gesù Bambino). Al Padre chiede semplicemente questo: di chinarsi con amore sulla sua piccolezza e sulla sua povertà.

Il linguaggio è, ancora una volta, profondamente mariano, come appare da un confronto con le prime espressioni del Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva». Maria ringrazia, loda, esalta il suo Signore perché ha guardato la sua umiltà; il testo greco parla di tapéinosis: non una virtù di Maria, ma la sua povertà, il suo nulla, il limite della sua creaturalità. Con verità riconosce: «Io non sono nulla, e Dio si è chinato con amore su di me». A Elisabetta della Trinità piaceva molto un’espressione di Caterina da Siena, da lei citata nel questionario compilato al suo ingresso al Carmelo, alla domanda su cosa sia per lei l’orazione: «l’unione di colei che non è con Colui che è».

L’invocazione rivolta al Padre nasce dall’esperienza del confronto con Dio. Le mansioni iniziali del Castello interiore di Teresa d’Avila insistono precisamente sulla conoscenza di se stessi, che va di pari passo con la conoscenza di Dio; solo la conoscenza di Dio, l’esperienza di Dio può dare il senso della propria realtà e far pronunciare nella verità queste espressioni: «povera piccola creatura». Questa esperienza non schiaccia la persona, perché spiritualità trinitaria significa comprendere tutto di Dio nella dimensione dell’amore che si dona: trascendenza, immensità, immutabilità, santità, onnipotenza, giustizia...

Ponendosi davanti a Dio Padre, la carmelitana non può che pregarlo dicendogli: “manifestati per quello che sei”, “sii Padre”. Più che una richiesta, è una presa di coscienza dell’identità di Dio, è uno sguardo contemplativo sul volto del Padre che è Amore amante, laddove il Figlio è l’Amore amato e lo Spirito è l’Amore che li unisce.

La preghiera prosegue. Secondo alcuni autori, ci troviamo ancora nell’orizzonte del racconto evangelico dell’annunciazione: «coprila con la tua ombra» sarebbe, allora, un’ulteriore citazione della pericope lucana.

Tuttavia, la seconda citazione (il «Prediletto nel quale hai posto tutte le tue compiacenze») indica chiaramente che Elisabetta si sta riferendo piuttosto alla pericope della Trasfigurazione: «... una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». Questo riferimento è in piena sintonia con il dinamismo della preghiera: ci muoviamo sullo sfondo della trasfigurazione piena in Cristo. Elisabetta sta contemplando la Trasfigurazione; il linguaggio rimane comunque mariano, perché Maria è la prima creatura trasfigurata, è l’ideale di vita, è la perfezione e la consumazione di questo desiderio.

Il Padre è invitato a vedere, a guardare tutto in lei, attraverso il filtro del proprio Figlio. È anche un linguaggio trinitario, perché chiede a Dio Padre di riversare su di lei tutto l’amore che - nel seno della Trinità - continuamente trabocca dal Padre verso il Figlio, e traboccando ricrea, rigenera, rinnova. È una nuova richiesta di partecipare pienamente al dinamismo della vita trinitaria.

A pochi mesi dalla morte lo chiederà nuovamente, scrivendo al canonico Angles: «Il 18 [luglio 1906] avrò ventisei anni; non so se quest’anno si compirà nel tempo o nell’eternità, e le chiedo come una figlia a suo padre di volermi consacrare, nella santa Messa, come un’ostia di lode alla gloria di Dio. Oh, mi consacri così bene che non sia più io ma Lui, e che il Padre, guardandomi, possa riconoscerlo; che “io sia conforme alla sua morte”, che soffra in me ciò che manca alla sua passione per il suo corpo che è la Chiesa, e poi mi bagni nel Sangue di Cristo perché io sia forte della sua propria forza; mi sento così piccola, così debole...»

In conclusione, è opportuno ricordare che le tre invocazioni al Figlio, allo Spirito e al Padre sono tutte marcatamente cristologiche: al Figlio ha chiesto di rivestirla di se stesso, dallo Spirito ha invocato una nuova incarnazione del Verbo, al Padre chiede di non vedere altro in lei se non il Figlio, il Figlio prediletto... L’Elevazione alla Trinità si sviluppa in questo orizzonte cristologico.

Se l’orante si rivolge allo Spirito e al Padre, lo fa perché si compia questo cammino e si realizzi pienamente questo progetto (sarebbe meglio dire: questa benedizione, questa predestinazione d’amore) che ha il suo fondamento, il suo centro e la sua realizzazione in Cristo, per Cristo e con Cristo.

 

"O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, mi consegno a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra luce l'abisso delle vostre grandezze". 

 

O miei Tre, mio Tutto


In un ultimo paragrafo, dopo essersi rivolta a ciascuna delle Persone divine, la preghiera riabbraccia infatti il mistero di Dio in uno sguardo onnicomprensivo: o miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo... Leggiamo questa invocazione ai “suoi Tre”, al “suo Tutto”, con quanto afferma in una lettera del 15 luglio 1903 (al canonico Angles): Egli [Dio] ha messo nel mio cuore una sete d’infinito e un così grande bisogno di amare che Lui solo può saziare: allora vado a Lui, come il bimbo a sua madre, perché riempia, invada tutto, e mi prenda e mi porti nelle sue braccia...
Ancora una volta, ci si trova di fronte ad un linguaggio profondamente vero. Mio Tutto non è espressione di un vago sentimentalismo, ma l’aver fatto esperienza che solo Dio può saziare e colmare (per usare un altro verbo che compare nell’Elevazione: può consumare, portare a compimento) i desideri che egli stesso ha messo nel suo cuore. Elisabetta cita molte volte il Deus meus et omnia di Francesco d’Assisi, che evidentemente gusta e comprende in profondità. Conosce (e talvolta prega) l’Orazione dell’anima innamorata di Giovanni della Croce: miei sono i cieli e mia è la terra... gli angeli sono miei, e la Madre di Dio e tutte le cose sono mie, e Dio stesso è mio e per me...
In una lettera del 4 gennaio 1904, raccontando come ha trascorso la notte di Natale, scrive poi con una sfumatura ancor più particolare e originale: ...questa volta era nel grande silenzio, in coro, vicinissima a Lui, e amavo dire a me stessa: “Ė il mio Tutto, il mio unico Tutto “. Che felicità, che pace questo mette nell’anima. Ė il solo, Gli ho dato tutto. Non solo: è il mio Tutto, ma: è il mio unico Tutto, con una sfumatura affettiva molto intensa, che non è difficile riconoscere; è da gustare in profondità e da guardare con verità questa espressione finale con cui Elisabetta si rivolge ai Tre, ai “suoi Tre”.
Li chiama anche: mia Beatitudine, Solitudine infinita, espressione ispirata probabilmente dal motto di san Bruno (O beata solitudo, o sola beatitudo! ), che vedeva scritto nei corridoi del monastero, davanti alla porta della propria cella. Sorprende che possa chiamare la Trinità: Solitudine infinita... Come si può comprendere, dal momento che stiamo parlando di tre Persone divine, unite in un rapporto d’amore? Il linguaggio della solitudine è un probabile riferimento alla santità di Dio, alla sua trascendenza, alla sua totale diversità rispetto al limite o al peccato della creatura. Oppure è un linguaggio che descrive il rapporto del Trascendente con il finito, l’Amore non amato, che non può trovare corrispondenza piena al proprio dono d’amore. La solitudine di Dio esprime anche, per certi versi, la verità di una vita che si apre a relazioni d’amore. Non c’è - e non ci può essere - amore e comunione, se non a partire da una grande solitudine. Elisabetta l’ha sperimentato nella propria carne: chi non sa portare il peso della propria solitudine, chi non sa scoprire la propria solitudine come una solitudine abitata, non è capace di relazione, di comunione con l’altro.
In un certo senso, la pienezza d’amore che unisce le tre Persone della Trinità sgorga da una profonda solitudine, da una pienezza che il Padre, in se stesso, vive, assapora e dona: non può donare chi non ha una pienezza, chi non si raccoglie in se stesso, chi non è capace di stare in solitudine. Non c’è opposizione tra solitudine e vita di comunione, perché comunione non è semplicemente stare insieme, ma piuttosto lasciarsi impregnare da questa pienezza nella propria solitudine abitata, e riversare sugli altri il dono traboccante dì questa pienezza d’amore. Questa è partecipazione alla vita trinitaria, ed Elisabetta lo ha ben compreso. Vede pertanto rispecchiata nell’ideale trinitario la sua stessa vocazione monastica e contemplativa, dove solitudine e comunione si integrano a vicenda, dove occorre essere capaci di una perfetta solitudine per attingere alle sorgenti dell’Amore increato.
 

Dio è il grande solitario


Leggiamo le espressioni di una lettera a Francesca de Sourdon (siamo nell’aprile del 1906: è importante fare riferimento agli ultimi periodi della vita di Elisabetta, perché l’esperienza della sofferenza è il momento della conferma di ciò che vive ed esprime nell’Elevazione): nella solitudine della mia piccola infermeria, siamo così felici entrambi; è un cuore a cuore che dura notte e giorno, è delizioso!. Elisabetta e “i suoi Tre”, in questa beata solitudine dell’infermeria, dove alla solitudine va aggiunto il peso e la difficoltà della sofferenza.
Nell’Ultimo ritiro spiega ancora in altri termini che cosa intenda per Dio come Solitudine infinita: Dio, dice san Dionigi, è “il grande solitario” (Pseudo-Dionigi l’Areopagita). Il mio Maestro mi chiede di imitare questa perfezione, di rendergli omaggio essendo una grande solitaria. L’Essere divino vive in un'eterna, un’immensa solitudine; non ne esce mai, pur interessandosi dei bisogni delle sue creature, perché non esce mai da Se stesso; e questa solitudine non è altro che la sua divinità.
Riferimento alla divinità, certo, alla trascendenza, alla santità, ma soprattutto all’unità interiore di Dio che, pur donandosi fino in fondo, non esce mai da sé. Ė l’Amore che, pur traboccando, non perde la propria identità, non scende a compromessi. In questo senso Dio è il grande solitario.
Ancora una volta Elisabetta della Trinità pensa al mistero di Dio come uno spazio infinito, in cui la creatura non finisce mai di entrare e di stupirsi, una Immensità in cui mi perdo.
Non è un linguaggio nuovo per lei, che già alcuni mesi prima dell’Elevazione dava appuntamento in Colui che è un’immensità d’amore e che ci sovrasta da ogni parte. E ancor prima del suo ingresso in monastero confidava: amo tanto questo mistero della Santa Trinità, è un abisso in cui mi perdo!...
Il riferimento all’immensità d’amore deve orientare a leggere in senso pienamente cristiano e trinitario anche l’espressione presente nell’Elevazione: l’Immensità divina è solo una vaga somiglianza con temi e linguaggi di alcune religioni orientali.
Per Elisabetta, Dio non è semplicemente la Divinità, l’Assoluto in cui perdersi, ma il Dio-Amore della rivelazione cristiana. E lo spazio sconfinato delle metafore a cui ricorre per parlare di lui, non fa altro che ribadire l’amore troppo grande da cui si è sentita e si sente continuamente avvolta: il suo Cenacolo [sta parlando di se stessa], è l’"Amore”, quell'Amore che abita in noi, per cui la sua unica occupazione è di rientrare al di dentro, in se stessa, rimanere in questo luogo ospitale, abitare questa casa, questo spazio sconfinato di accoglienza e d’amore.
 

Mi Abbandono a voi

come una preda

 

Alle invocazioni rivolte ai suoi “Tre” (che abbiamo già commentato) segue una consegna, ed è la consegna che conclude tutta l’Elevazione alla Trinità: mi abbandono a voi come una preda. Si è vista nel corso della preghiera un’evoluzione dinamica nel modo di porsi da parte di Elisabetta. Le prime volte in cui era soggetto di verbi, si trattava di verbi di desiderio, quando manifestava al Cristo amato, crocifisso per amore i propri desideri, i desideri del suo cuore (vorrei...).

Poi passava ad una preghiera (ti chiedo), perché riconosceva la propria impotenza, e la domanda la portava ad una volontà ferma e decisa, esplicitata nel triplice voglio. Ora non è più semplicemente un atto di volontà, ma è l’abbandono totale. L’Elevazione doveva necessariamente portare a questo vertice della consegna di se stessa: mi abbandono a voi come una preda.

Concretamente, questo abbandono non significa altro che vivere d’amore: amare, amare sempre, vivere d’amore, cioè essere abbandonata, essere la sua preda!... (probabilmente ha letto simili espressioni in Teresa di Gesù Bambino). Comprende la vita intera, un’intera esistenza d’amore come una consegna che la rende preda di Dio: vivere nell’abbandono e nel silenzio totale. L’immagine della preda fa riferimento alla metafora dell’aquila che ci solleva, portandoci in alto, una metafora conosciuta dalla Bibbia e mutuata dagli scritti di Teresina (da notare la data della lettera che viene qui citata: 18 febbraio 1901, ancora prima di entrare al Carmelo, testimonianza di un cammino spirituale e di una maturazione interiore notevole negli anni del laicato): mi sembra che Egli sia la nostra Aquila divina, noi siamo le prede del suo amore; ci prende, poi ci colloca sulle sue ali e ci porta molto lontano, molto in alto, in quelle regioni in cui l’anima e il cuore amano perdersi! Oh! lasciamoci prendere, andiamo dove vuole! Un giorno la nostra Aquila amata ci farà entrare in quella Patria verso la quale i nostri cuori aspirano.

Lasciamoci prendere... In fondo, tutta la vita cristiana si gioca in questa disponibilità a diventare preda dell’amore di Dio: credere all’amore, abbandonarsi all’amore, lasciarsi attirare, portare là dove egli vuole per amore e nell’amore. Essere preda di Dio: anche questa è un’espressione dal sapore mariano, perché per Elisabetta della Trinità è Maria la perfetta immagine dell’abbandono senza riserve all’amore di Dio: Maria fu per sempre la preda di Dio. E se tutta la vita del credente porta in questa direzione, la vita eterna stessa non sarà altro che la continuazione necessaria di questo cammino, nella stessa direzione; non un di più, non un premio per ciò che si è fatto in questa vita, non un contentino per le sofferenze, ma la consumazione, cioè la perfezione, la mèta di tutto il cammino.

 

Tempo ed eternità

 

La conclusione della preghiera ci riporta precisamente al rapporto fra tempo ed eternità, di cui si è parlato nell’introduzione: seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra luce l’abisso delle vostre grandezze. La nostra sensibilità a volte fatica ad accettare o a capire certe espressioni del linguaggio di Elisabetta: seppellitevi in me, perchè io mi seppellisca in voi... Teniamo conto di due realtà fondamentali. In primo luogo, la simbologia del morire è connaturale a tutta l’Elevazione, ed è legata soprattutto a un modo di comprendere la vita cristiana in prospettiva battesimale, cioè come partecipazione piena al mistero di Cristo morto e risorto. In secondo luogo, la vera chiave di lettura di questa immagine viene ancora una volta dalla reciprocità con cui Elisabetta della Trinità la usa: non parla semplicemente della propria necessità di seppellirsi in Dio, ma presenta questa reciprocità.

Chiede a Dio: “seppellisciti in me”, “nasconditi in me”, “vivi in questo silenzio profondo e adorante in me, perché io possa seppellirmi in te”.

Lo comprendiamo leggendo una lettera dell’agosto 1905. Parlando del ritiro imminente che sta per cominciare, un tempo di preghiera più intensa e di solitudine, lo definisce in questi termini: vado a seppellirmi nel fondo della mia anima, cioè in Dio [. . .], in un movimento semplicissimo. Seppe1lirsi in Dio è dunque pregare, è questo rientrare in se stessa, abitare la propria “casa”, che è tempio di Dio. Sappiamo quale influsso abbia esercitato su di lei la parola di Paolo nella lettera ai Colossesi: voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. L’essere morti, qui, è relativo al fatto che la vita è Cristo: siete morti perché un Altro sta vivendo in voi. Se si distolgono certe espressioni dell’Elevazione alla Trinità da questo centro trinitario, cristologico e soprattutto battesimale si fa una caricatura della vita cristiana e della spiritualità della mistica di Digione.

La conclusione della preghiera si ricollega, dunque, al mistero pasquale, al Cristo amato, crocifisso per amore, con cui iniziava il secondo paragrafo.

Questo seppellirsi richiama l’idea di silenzio, di pacificazione interiore, di solitudine, in cui l’autrice ha contemplato il mistero stesso di Dio, e anche l’idea di notte, che Elisabetta si è detta disposta ad attraversare nel suo cammino di amore. Ci imbattiamo, quindi, in uno sguardo retrospettivo, che riprende alcuni dei temi fondamentali fin qui esaminati.

L’Elevazione termina anche con uno sguardo in avanti, proiettato sul mistero dell’eternità. Elisabetta è cosciente, per averlo letto e meditato tante volte in Paolo, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. Ci sono, in proposito, due aperture nella conclusione della preghiera. Una prima apertura in avanti, verso l’eternità a cui ormai sta guardando, con i piedi saldamente per terra ma con lo sguardo fisso sulla mèta.

Un secondo legame riallaccia la conclusione con l’inizio stesso della preghiera. La necessità di seppellirsi in Dio, infatti, è un richiamo al primo paragrafo, a quel desiderio di non uscire più da Dio, dall’abitazione interiore, dalla reciproca inabitazione, dalla sua esigenza di solitudine, di silenzio e di pacificazione interiore. Ci piace pensare alla conclusione dell’Elevazione alla Trinità come una conclusione aperta, dinamica, in una struttura circolare che rimanda all’inizio. L’Elevazione non è preghiera da recitare una volta, ma da continuare ad assaporare, a gustare, a vivere e da cui lasciarsi anche ammaestrare.

 

Conclusione

 

Come annotazioni conclusive, attingiamo ancora a poche espressioni di Elisabetta della Trinità, successive al 21 novembre 1904. Prima di tutto, ad una poesia (sebbene Elisabetta non sia una grande poetessa) composta circa un mese dopo l’Elevazione, per la festa di Natale di quell’anno, in cui ritornano i principali temi della preghiera. A cominciare dal ritornello, che si esprime in questi termini: O profondità, insondabile mistero, /L’Essere increato s’orienta su di me. /Attraverso tutto posso, fin da questa terra, / Contemplarlo con le luci della fede. Inoltre, l’Incarnazione è vista come uno slancio divino dal cielo alla terra, per consumare ad ogni istante la fusione (questo aiuta a capire in che senso l’Elevazione parlasse dello Spirito come Fuoco consumante). La giovane carmelitana ha già emesso, l’anno precedente, la sua professione religiosa, ma - come nella metafora matrimoniale - il matrimonio è semplicemente un contratto, quasi una formalità: l’unione d’amore è la vera “consumazione”.

Poco oltre, nella stessa poesia, il Verbo incarnato si rivolge all’orante con queste parole:

Vengo ad insegnarti a diventare sposa, / Ad immolarti per consolare il mio cuore, e ancora: Guardami, potrai comprendere meglio /Il dono di sè, l’annientamento (tutte le volte in cui si parla di rinnegamento di sé, o - più in generale - di aspetti ascetici, se ne parla in rapporto a Dio, con uno sguardo su di lui) / Per esaltarmi devi sempre scendere, / Che il tuo riposo sia nell’abbassamento. /È sempre lì che avviene l’incontro, /Per trovarmi bisogna annientarsi. Allo stesso tempo, la poesia parla ancora di una incarnazione del Verbo nella propria umanità, come aveva chiesto allo Spirito nell’Elevazione alla Trinità.

Facciamo un passo ulteriore, arrivando fino al 26 luglio 1906, l’ultima stagione della vita, quando Elisabetta è ormai confinata nell’infermeria, e alla sua infermiera, suor Anna di Gesù, dedica una poesia nel giorno del suo onomastico. Le assicura che, quando sarà nella vita eterna e abiterà nella Casa del Padre, [...] nella grande luce, non potrà dimenticare nulla del tempo trascorso insieme, delle cure, della carità che ha sperimentato in questa piccola infermeria.

Anche a proposito della malattia, della sofferenza, dei rapporti di intimità e condivisione che si creano nei pochi metri quadrati dell’infermeria, Elisabetta può confessare: il tempo è l’eternità incominciata e sempre in progresso, a tal punto che nell’eternità non potrà dimenticare nulla di ciò che è accaduto in questo dono incessante d’amore. Ritorna in questa poesia il simbolo della casa, ma questa volta è la casa del Padre.

Ritorna il simbolo della grande luce, la luce della vita eterna in cui è chiamata ad abitare per sempre. Ritorna il tema (centrale per lei) dell’adorazione in un profondo silenzio... ma, soprattutto, ritornano quasi negli stessi termini le operazioni delle tre Persone divine, rivolte a modo di augurio finale alla sua infermiera.

Le accogliamo a nostra volta come un augurio, una benedizione e una missione:

Che il Padre ti colmi con grande larghezza, / Che il Verbo s’imprima al centro del tuo cuore, /E che lo Spirito d’amore ti consumi senza sosta.

 

Estratto dal volume R. FORNARA, Abitare la tua casa. Elevazione alla Trinità di Elisabetta della Trinità. Testo e commento, Ed. Monastero San Giuseppe, Roma 2005, in cui si troveranno maggiori dettagli e approfondimenti.
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